di Stefano Tarocchi · Nelle scorse domeniche la liturgia ha richiamato, di fronte a quanti in questi tempi così particolari trovano ancora il tempo di partecipare, l’insegnamento del Vangelo di Luca sulla preghiera, che ha come centro il Padre nostro e tutto ciò che vi è collegato: «Gesù si trovava in un luogo a pregare; quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: “Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli”» (Lc 11,1). Lo stesso Vangelo di Luca è un continuo affacciarsi della preghiera di Cristo, fino a una sorta di culmine, ossia l’incipit del capitolo 18: Gesù «diceva loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai» (Lc 18,1). E seguono due splendide parabole.
Ma oltre al testo del Vangelo di Marco, la liturgia riporta il racconto, tratto dal libro della Genesi in cui Abramo cerca di scongiurare la distruzione della città di Sodoma, punita senza rimedio per il grave peccato dei suoi abitanti.
Il racconto della Genesi è una raffinata descrizione del rapporto fra Dio e Abramo, condotta quasi in punta di penna fra i due straordinari protagonisti, come più avanti il libro dell’Esodo parlerà di Mosè: «il Signore parlava con Mosè faccia a faccia, come uno parla con il proprio amico» (Es 33,11).
Richiamiamo il dialogo fra Dio ed Abramo: «in quei giorni, disse il Signore: «il grido di Sodoma e Gomorra è troppo grande e il loro peccato è molto grave. Voglio scendere a vedere se proprio hanno fatto tutto il male di cui è giunto il grido fino a me; lo voglio sapere!». Quegli uomini – i tre sotto cui si cela il Signore alle Querce di Mamre – partirono di là e andarono verso Sodoma, mentre Abramo stava ancora alla presenza del Signore. Abramo gli si avvicinò e gli disse: «Davvero sterminerai il giusto con l’empio? Forse vi sono cinquanta giusti nella città: davvero li vuoi sopprimere? E non perdonerai a quel luogo per riguardo ai cinquanta giusti che vi si trovano? Lontano da te il far morire il giusto con l’empio, così che il giusto sia trattato come l’empio; lontano da te! Forse il giudice di tutta la terra non praticherà la giustizia?».
Rispose il Signore: «Se a Sodoma troverò cinquanta giusti nell’ambito della città, per riguardo a loro perdonerò a tutto quel luogo». Abramo riprese e disse: «Vedi come ardisco parlare al mio Signore, io che sono polvere e cenere: forse ai cinquanta giusti ne mancheranno cinque; per questi cinque distruggerai tutta la città?». Rispose: «Non la distruggerò, se ve ne troverò quarantacinque». Abramo riprese ancora a parlargli e disse: «Forse là se ne troveranno quaranta». Rispose: «Non lo farò, per riguardo a quei quaranta». Riprese: «Non si adiri il mio Signore, se parlo ancora: forse là se ne troveranno trenta». Rispose: «Non lo farò, se ve ne troverò trenta». Riprese: «Vedi come ardisco parlare al mio Signore! Forse là se ne troveranno venti». Rispose: «Non la distruggerò per riguardo a quei venti». Riprese: «Non si adiri il mio Signore, se parlo ancora una volta sola: forse là se ne troveranno dieci». Rispose: «Non la distruggerò per riguardo a quei dieci» (Gen 18,20-32).
Abramo, peraltro, non osa andare sotto questo numero, il numero di dieci unità, che significativamente diventa il minimo necessario perché si possa tenere una riunione di preghiera in sinagoga: da notare dieci unità di sesso maschile.
Ma prima della conclusione della vicenda non possiamo dimenticarci anche della lotta fra Abramo e il Signore, simile peraltro alla lotta tra Giacobbe e il Signore, narrata sempre nel libro della Genesi, dopo che quest’ultimo ritorna dal suo esilio: «durante quella notte egli si alzò, prese le due mogli, le due schiave, i suoi undici bambini e passò il guado dello Iabbòk. Li prese, fece loro passare il torrente e portò di là anche tutti i suoi averi. Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora. Vedendo che non riusciva a vincerlo, lo colpì all’articolazione del femore e l’articolazione del femore di Giacobbe si slogò, mentre continuava a lottare con lui. Quello disse: “Lasciami andare, perché è spuntata l’aurora”. Giacobbe rispose: “Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!”. Gli domandò: “Come ti chiami?”. Rispose: “Giacobbe”. Riprese: “Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!”. Giacobbe allora gli chiese: “Svelami il tuo nome”. Gli rispose: “Perché mi chiedi il nome?”. E qui lo benedisse. Allora Giacobbe chiamò quel luogo Penuèl: “Davvero – disse – ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita è rimasta salva” (Gen 32,25-31). È noto, infatti, che Vedere Dio significa morire (così Es 3,6; 24,11; 33,20).
Ora, sappiamo come la vicenda di Sodoma si conclude: «il sole spuntava sulla terra e Lot – il nipote di Abramo – era arrivato a Soar, quand’ecco il Signore fece piovere dal cielo sopra Sodoma e sopra Gomorra zolfo e fuoco provenienti dal Signore. Distrusse queste città e tutta la valle con tutti gli abitanti delle città e la vegetazione del suolo. Ora la moglie di Lot guardò indietro e divenne una statua di sale. Abramo andò di buon mattino al luogo dove si era fermato alla presenza del Signore; contemplò dall’alto Sodoma e Gomorra e tutta la distesa della valle e vide che un fumo saliva dalla terra, come il fumo di una fornace» (Gen 19,23-28).
La mediazione di Abramo sembra totalmente inutile, ma la stessa lotta di Abramo con il Signore per impedire la distruzione di Sodoma non è affatto banale: infatti, dice il testo sacro, «quando distrusse le città della valle, Dio si ricordò di Abramo e fece sfuggire Lot alla catastrofe, mentre distruggeva le città nelle quali Lot aveva abitato» (Gen 19,29).