di Stefano Tarocchi · L’evento accademico dell’anno 2022, che riprende in presenza dopo la pausa dovuto alla pandemia è stato dedicato ad un argomento particolarmente affascinante. Lo testimonia lo stesso titolo: “L’interesse dei cristiani per i rotoli del Mar Morto”, con la lezione del prof. Marcello Fidanzio.
Stiamo parlando di un ambiente estremamente affascinante anche da un punto di vista paesaggistico: il sito di Qumran, località collocata nei pressi del Mar Morto (Khirbet Qumrān).
A tutti è noto come negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale una scoperta considerata casuale porto alla luce una serie sterminata di anfore che contenevano fra gli altri di rotoli di papiro su cui erano scritti testi che appartenevano alla comunità essenica, oltre ad alcuni apocrifi (documenti noti del periodo del Secondo Tempio, come Enoch, Giubilei, Tobia, S, ecc. che non sono parte della Bibbia ebraica, ma in qualche caso sono stati accettati dalla versione greca dei Settanta o utilizzati dalla tradizione rabbinica), ma soprattutto testi della bibbia ebraica: in tutto circa 900 rotoli, molti dei quali scritti su pergamena ed alcuni su papiro.
Tutto il materiale era composto in ebraico – ci sono però testi in aramaico, e anche in greco –, il che ha permesso di avere un testo dell’Antico testamento antico oltre mille anni rispetto a quello che era comunemente in possesso: prima di questa scoperta dei rotoli del Mar Morto, i manoscritti più antichi della Bibbia in ebraico erano nel testo masoretico del IX secolo, come quello del Codice di Leningrado.
Scriveva un grande studioso della materia: «per la prima volta potevamo avere un’intera gamma di composizioni religiose che sono arrivate a noi direttamente, assolutamente prive di ogni interferenza successiva. Visto che i testi sono stati conservati ai margini della vita convenzionale, ci hanno raggiunto prive delle restrizioni censorie. La censura ebraica ha soppresso la letteratura religiosa che non osservava l’ortodossia rabbinica» (García Martínez). Se consideriamo che il riferimento storico più recente ritrovato nei numerosi manoscritti risale al 50 a.C., possiamo stabilire un punto fermo.
Negli anni in cui questa scoperta avvenne, o piuttosto venne comunicata alla comunità internazionale, quel territorio era sotto il dominio del Regno Hascemita di Giordania. Gli scavi vennero fatti sotto la supervisione di un gruppo di studiosi cristiani appartenenti all’École Biblique et Archéologique Française di Gerusalemme, sotto la guida dell’archeologo dei padri domenicani Roland de Vaux (1903-1971).
De Vaux intraprese gli scavi con una particolare precomprensione: pensava agli esseni come una sorta di comunità monastica. Questo determinò non solo il lavoro di esplorazione del sito ma anche la sua interpretazione, in un chiave riconducibile a quel modello.
Morto all’improvviso il de Vaux nel settembre 1971, nell’anno seguente uscì sulla rivista dei gesuiti del Pontificio Istituto Biblico di Roma un articolo in cui José O ‘Callaghan (1922-2001), tentò una interpretazione, tanto affascinante quanto improbabile, di un frammento di papiro grande come un francobollo, trovato nella famosa settima grotta di Qumran. Lo studioso volle vedere due versetti del vangelo secondo Marco: 6,52-53. Il 1972 veniva poco anni dopo che la regione, al termine della guerra dei sei giorni (1967) aveva portato il sito di Qumran sotto l’autorità dello Stato di Israele.
Scriveva O ‘Callaghan: «l’apporto dell’identificazione di 7Q5 sta nell’esserci avvicinati al Gesù storico, che questa identificazione permette: […] se adesso siamo in possesso di un papiro dell’anno 50 d.C., e del Vangelo di Marco significa che abbiamo stabilito il contatto, mediante la testimonianza di un papiro, con il Cristo storico».
Da O ‘Callaghan in poi, l’idea che dentro le grotte di quelle regioni ci fossero testi dei Vangeli che potevano essere datati non oltre vent’anni dagli avvenimenti del Nuovo Testamento (Gesù muore nell’anno 30…) diventava un cavallo di battaglia di progetti di una ideologia, capace di trascurare uno dei principi fondamentali della teologia cristiana. Oggi, nessuno accetta questa interpretazione.
La fede cristiana, infatti, custodisce i testi sacri all’interno di quel tessuto particolare che è la sacra tradizione. Questa conserva anzitutto attraverso la memoria e la trasmissione orale ciò che poi sono diventati i testi che noi conosciamo, finito nella Bibbia.
Peraltro, non c’è nessun motivo di anticipare così tanto la datazione dei Vangeli, e in particolare del vangelo di Marco, quando il più antico frammento dei vangeli che è stato decifrato, il celebre Papiro 52, di 89 per 60mm, che contiene senza dubbio alcuno una manciata versetti del capitolo 18 del Vangelo di Giovanni: precisamente i versetti 31-33 su un lato (recto) e 37-38 sull’altro (verso).
Conservato nella John Rylands Library di Manchester, è stato datato intorno al 125 d.C., un tempo estremamente vicino alla sua composizione effettiva del quarto Vangelo: una testimonianza affascinante degli avvenimenti che i Vangeli trasmettono fino a noi.