di Stefano Liccioli · Nel mese di maggio è uscito “Esterno notte”, l’ultimo film di Marco Bellocchio dedicato al rapimento e all’uccisione di Aldo Moro. Sempre in questo mese, per la precisione il 17 maggio, ricorrevano i cinquanta anni dall’omicidio del commissario Luigi Calabresi. Un anniversario che è stato accompagnato dall’uscita del libro della vedova del commissario, la signora Gemma, che ha pubblicato per Mondadori “La crepa e la luce” in cui ha raccontato la sua storia, segnata in maniera indelebile dall’assassinio del marito.
La produzione cinematografica, documentaristica e pubblicistica sui cosiddetti “Anni di piombo”, nel corso del tempo, si è mantenuta rilevante così come l’attenzione del pubblico, a dimostrazione di un interesse particolare per questo periodo storico della nostra Repubblica. I motivi di questo interesse, a mio avviso, sono vari. Una ragione sta nel fatto che si tratta di eventi non ancora così lontani dai giorni nostri: l’ultimo omicidio delle Brigate Rosse (anche se autodefinitisi “Nuove”) è quello del giuslavorista Marco Biagi, nel 2002.
Un’altra motivazione dipende dall’entità del problema. Infatti, secondo dati ufficiali del Ministero dell’Interno nel periodo 1969-1987 si sono verificati nel nostro Paese 14.591 atti di violenza con una motivazione politica: dall’aggressione squadristica, all’omicidio politico, fino all’attentato con esplosivo a fine di strage indiscriminata. Tutto ciò ha causato 491 morti e 1.181 feriti: cifre da guerra che non hanno eguali in nessun altro paese europeo.
Un’ulteriore ragione è legata al fatto che su molte delle vicende degli “Anni di piombo” ci sono ancora diversi aspetti da chiarire. In alcuni casi manca ancora un verità processuale, in tanti altri manca invece una verità storica esaustiva.
Solo per rimanere nel campo dello stragismo, la mancata individuazione, in ambito giudiziario, dei responsabili o di tutti i responsabili delle stragi che si sono svolte in Italia dal 1969 in poi (anche se i contorni di alcuni eccidi precedenti non è che siano così definiti, penso per esempio alla strage di Portella della Ginestra avvenuta nel 1947) è attribuibile a diversi fattori: all’assenza di rivendicazioni credibili che invece sarebbero state utili ad orientare le indagini, al numero modesto di pentiti (ed in certi casi anche poco affidabili), all’opposizione del segreto di Stato ad alcune indagini, alla scomparsa di testimoni o indagati, alla sistematica presenza di errori, omissioni e sviamenti delle indagini da parte degli incaricati delle stesse, funzionari civili o militari che fossero.
Tutto ciò ha contribuito, secondo me, a tenere viva l’attenzione della gente su questi anni così tragici della nostra storia repubblicana ed a suscitare il desiderio di avere maggiori informazioni sull’argomento. Non dobbiamo mai dimenticare che le persone hanno un debole per la verità ed il loro “aggrapparsi”, oggi, a film, documentari o libri che parlano degli “Anni di piombo” assomiglia, in maniera metaforica, a quello delle persone che a Milano, in una piazza Duomo strapiena di gente, si aggrappavano appunto ai lampioni pur di esserci e partecipare ai funerali delle vittime della strage di Piazza Fontana. Tutti, a loro modo, hanno testimoniato e testimoniano un forte attaccamento alla verità ed un coraggio di non arretrare (anche attraverso una corretta informazione) di fronte a chi, allora, avrebbe voluto disintegrare il vivere civile ed ancora oggi cerca di occultare le sue responsabilità e quelle di altri.
In quest’ ottica il lavoro da fare è ancora molto e non sto parlando solo di quello che riguarda i magistrati o gli storici. Si tratta di costruire ed in certi casi rafforzare una memoria collettiva su questo periodo storico, con un’attenzione particolare alle nuove generazioni che, secondo alcune statistiche, hanno sentito parlare di stragi o omicidi politici, ma hanno difficoltà ad indicare i colpevoli ed a ricostruire il contesto in cui si sono svolti, a dimostrazione di una carenza che c’è nella trasmissione della memoria di quegli eventi.
Proprio nella prospettiva di costruire una memoria collettiva, più ampia possibile, è significativo notare come negli ultimi tempi la narrazione degli “Anni di piombo” sia affidata anche ai parenti delle vittime e non solo a storici, giornalisti o ai responsabili dei crimini. Penso al racconto di Benedetta Tobagi, figlia di Walter ucciso nel 1980 da un gruppo terroristico di estrema sinistra, o a quello di Luca Tarantelli, figlio di Ezio ucciso dalla Brigate Rosse nel 1985.
Una delle lezioni che possiamo trarre guardando a questi anni riguarda proprio i rischi dell’odio ideologico che ci porta a guardare gli altri non come persone in carne ed ossa, quali sono, ma come dei simboli che come tali sono più facili da abbattere. Un giovane regista scrisse una frase che mi colpì e che ricordo tutt’ora:«Il nemico, a trecento metri di distanza, è un bersaglio. A tre metri è un uomo». Bisogna, allora, tentare più spesso di ridurre le distanze e di ritornare «ai tre metri» o meno dell’incontro che rende più reale quel volto, più umana quella presenza.
E’ l’esperienza che fece Gemma Calabresi che nel 2009 incontrò Licia Pinelli in Quirinale, invitate dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano al Giorno della Memoria per le vittime del terrorismo e delle stragi. Le due vedove non si erano mai incontrate, ma non esitarono un attimo ad abbracciarsi:«Peccato non averlo fatto prima», disse nell’occasione la signora Licia.
«Ho sempre pensato che la pacificazione passi attraverso le parole e le azioni, anche quelle minime, anche quelle sussurrate», ha scritto nel suo libro la signora Gemma.