di Stefano Liccioli · Mi ha molto colpito la notizia di quella donna settantenne che nello scorso febbraio è stata trovata mummificata sulla sedia dell’abitazione in cui viveva alla periferia di Como, a due anni dalla sua morte. Mi ha colpito e mi ha fatto riflettere non tanto sul dramma della solitudine (come qualcuno si sarà affrettato a commentare), quanto sul fatto che una condizione più o meno scelta di vivere da soli non possa prescindere da un minimo di considerazione e d’interesse da parte di chi ci circonda. E, si badi bene, non si tratta di filantropia o carità cristiana, ma di un prerequisito essenziale per poter parlare di una società che sia veramente rispettosa della dignità di tutte le persone, indipendentemente dalle loro decisioni individuali.
La vicenda di Como può sembrare un fatto raro solo nei termini in cui è avvenuta, perché sono molti i drammi dell’indifferenza che si consumano quotidianamente in ogni parte d’Italia e nel silenzio dei media. Il problema a mio avviso dipende proprio dall’indifferenza, una vera e propria malattia capace di diffondersi tra di noi, così come spiegò Papa Francesco durante l’omelia della Messa celebrata a Santa Marta nel gennaio del 2019:«L’opposto più quotidiano all’amore di Dio, alla compassione di Dio, è l’indifferenza. “Io sono soddisfatto, non mi manca nulla. Ho tutto, ho assicurato questa vita, e anche l’eterna, perché vado a Messa tutte le domeniche, sono un buon cristiano”. “Ma, uscendo dal ristorante, guardo da un’altra parte”. Pensiamo: questo Dio che dà il primo passo, che ha la compassione, che ha misericordia e tante volte noi, il nostro atteggiamento è l’indifferenza».
In nome di un male interpretato rispetto della privacy delle persone abbiamo confuso la discrezione ed il sacrosanto diritto alla riservatezza della gente con il disinteresse per i loro destini, alla faccia del richiamo paolino “Rallegratevi con quelli che sono nella gioia; piangete con quelli che sono nel pianto” (Rm 12,15). Senza arrivare agli eccessi di Como (ma, ripeto, questa città non è diversa da tante altre in Italia), muoiono vicini di casa e non si sa niente, nascono (purtroppo pochi) bambini o bambine nella strada in cui abitiamo e non si sa niente. Anche i fiocchi rosa o azzurri sembrano essere passati di moda e non solo a causa della denatalità, ma forse di una ritrosia a condividere con gli altri ciò che è veramente importante nella nostra vita come la nascita di un figlio o la scomparsa di una persona cara, salvo riversare sui social network i dettagli della nostra esistenza, anche quelli più inutili: l’ultimo paio di scarpe che abbiamo comprato, il piatto (a nostro avviso) migliore che abbiamo cucinato e così via. Ma si sa, abitare le piattaforme digitali è più facile che vivere la vita reale e soprattutto lì scegliamo noi cosa condividere e con chi farlo: forse perché su social teniamo gli altri a distanza di sicurezza e questo ci rassicura perché gli altri ci possono infastidire con le loro richieste e necessità. Parliamo, chattiamo, ma non comunichiamo per davvero nel senso che non mettiamo in comunione quello che siamo.
A mio avviso la pandemia ha aggravato questa situazione contribuendo a diffondere maggiormente la cultura dell’indifferenza. Il virus ci ha costretto a stare fisicamente lontani dagli altri per non essere contagiati, ma il distanziamento alla fine ha cominciato a riguardare non solo il loro corpo, ma le persone in sé, tout court, anche quando queste erano amici e parenti. Abbiamo cominciato ad imparare a fare a meno degli altri perché costituivano un pericolo per noi sia perché ci potevano trasmettere il virus e farci ammalare o, comunque, perché ci avrebbero complicato la vita tra tamponi, quarantene e isolamenti. E’ sembrata realizzarsi, pur con qualche licenza filosofica, l’affermazione di Sartre nel suo dramma “A porte chiuse”:«L’inferno sono gli altri».
Ripeto, in molti casi la distanza fisica tra le persone è diventata, più o meno consapevolmente, anche esistenziale. Ci siamo abituati a stare lontani da amici e parenti quasi da non sentire più la problematicità di questi rapporti più allentati. Vedendo i comportamenti di certe persone mi è sembrato che in alcuni casi il timore del contagio per il Covid sia diventato il pretesto per chiudersi nell’individualismo e per scegliere di fare solo ciò che ci piace, in una dinamica di regresso adolescenziale piuttosto preoccupante.
All’inizio della pandemia sembravamo ottimisti sul fatto che da questa vicenda saremmo usciti migliori. Dopo due anni non sono proprio convinto che sia andata così. Il motto di don Milani “I care”, “m’interessa” sembra relegato ai convegni sul priore di Barbiana o ai buoni propositi, non si capisce invece tutta la portata del suo invito a prendersi a cuore delle persone e delle situazione che ci circondano. Potremmo, grazie a Dio, essere diventati immuni dal contagio del Covid-19, ma chi ci salverà dal virus della cultura dell’indifferenza?