di Francesco Vermigli · A metà di settembre cade la memoria liturgica della Beata Vergine Maria Addolorata. Si tratta di una memoria che circa un secolo fa ha trovato la propria collocazione definitiva nel giorno successivo all’Esaltazione della Croce: fu Pio X nel 1913 a fissare al 15 settembre tale ricorrenza. Ma il culto della Madonna dei Dolori è assai più antico, risale la storia occidentale e arriva fino a noi. Esso proviene da quei secoli dell’epoca di mezzo connotati da una rinnovata devozione mariana e da quelle nuove realtà sociali e istituzionali che furono le città comunali; i secoli di quelle particolari aggregazioni laicali che furono le confraternite, specchio religioso della società industriosa e dinamica dei mercanti e degli artigiani. È una devozione – quella alla Madonna Addolorata – che trova proprio nella nostra Firenze e attorno alla nascente spiritualità servita un momento decisivo del suo sviluppo e della sua affermazione.
Ma ciò che qui proviamo ad imbastire, non è tanto una carrellata storica del culto della Madonna dei Dolori. Basti qui accennare che l’originario spunto proveniente dalla spiritualità dei Servi di Maria si agganciò ben presto a modalità di vivere la fede calcate sulla linea dell’emotività e della drammatizzazione, in Spagna e nelle regioni che conobbero la dominazione spagnola. A ben vedere la persistenza del culto in sempre più vaste regioni dell’Europa e nel Nuovo Mondo segnò a tal punto il destino di tale devozione, da condurre all’estensione a tutta la Chiesa di tale ricorrenza, con papa Pio VII nel 1814; un secolo prima della definitiva collocazione al 15 settembre con Pio X.
Quello che vogliamo qui affrontare è piuttosto altro: andare, cioè, al significato teologico di questa celebrazione. Provare a dire come questa ricorrenza liturgica tocchi un aspetto decisivo della vocazione di Maria: quello di stare fino alla fine accanto al Figlio suo; quello di condividere fino alla consumazione la missione salvifica di Cristo. La memoria di Maria Addolorata esprime la fede del popolo di Dio che contempla il mistero commovente della Madre che sta sotto la croce del proprio Figlio morente. Qui proviamo a “sciogliere” teologicamente l’intuizione del popolo di Dio che contempla una Madre che va, ovunque vada il Figlio suo.
Pensiamo alla prima strofa di quella sequenza notissima, attribuita a Jacopone da Todi: Stabat Mater; testo che ancora oggi compare nell’eucologia della memoria liturgica del 15 settembre e che accompagna la Via Crucis del Venerdì santo. Consideriamo le parole di quella prima strofa, perché nascondono in sintesi il significato teologico della celebrazione: «Stabat Mater dolorosa / iuxta crucem lacrimosa / dum pendebat Filius». Consideriamo le parole, anche se non secondo l’ordine esatto.
– Dum pendebat Filius: non siamo in un momento qualsiasi della vita di Gesù, non siamo davanti a Gesù che predica il Regno o guarisce i malati o scaccia i demoni. Come in un fotogramma bloccato, siamo condotti davanti a Cristo che pende dal legno, siamo condotti al momento culminante della salvezza dell’uomo. Cristo sulla croce attesta a quale punto sia stato capace di far giungere l’obbedienza alla missione ricevuta dal Padre. Aveva detto: «Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato» (Gv 4,34).
– Stabat iuxta crucem: indica la prossimità fisica di Maria al patibolo. Ella non fugge, ella sta. Stare è verbo che indica la fermezza con cui si resta in un luogo; indica anche la nobiltà con cui di fronte alla morte del Figlio Maria resta salda. Si pensi alla Crocifissione di Masaccio, oggi al Museo di Capodimonte di Napoli: di fronte al grido e alla contorsione della Maddalena voltata di spalle, colpisce a destra e frontale l’austera figura di Maria piangente, in piedi.
– Lacrimosa, dolorosa: sono gli aggettivi con cui l’autore della sequenza prova a dire il sentimento di Maria che vede morire il Figlio suo. Sono gli aggettivi che mostrano che cosa vuol dire per Maria stare ai piedi della croce.
– Mater: è la parola chiave, la parola in cui si condensa tutta questa scena così drammatica e colma di pathos. Maria non è semplicemente Maria, qui. Maria non viene chiamata per nome. È Madre: Madre è il titolo con cui viene venerata dalle più antiche epoche cristiane; Madre è il titolo con cui viene definita a Efeso contro Nestorio; Madre è il titolo su cui Oriente e Occidente convergono; Madre è il nome con cui viene appellata da Bernardo nel Paradiso dantesco. Madre è il destino di Maria, la sua missione, la sua vocazione, la sua stessa vita.
Ora cosa significa essere Madre (“la” Madre) sotto la croce? Solo ora, ci pare, Maria vive in pienezza cosa significano le parole dell’angelo: “sarai Madre dell’Altissimo”. Solo ora capisce che senso avessero quelle parole dure e taglienti del vegliardo Simeone nel Tempio: «anche a te una spada trafiggerà l’anima» (Lc 2,35). Maria Madre in quel momento è sotto la croce, ma – meglio ancora – è sulla croce, assieme al Figlio. E attende e spera la vittoria del Figlio suo sulla morte.