di Giovanni Campanella · Alla fine di dicembre 2017, l’Asino d’oro edizioni ha dato alle stampe un libro intitolato Il flagello del neoliberismo. Alla ricerca di una nuova socialità, all’interno della collana “Le gerle”.
L’autore è Andrea Ventura. Dopo la laurea ha svolto ricerche per enti pubblici e privati sulle tematiche delle energie rinnovabili e dell’ambiente. Ha poi ottenuto il dottorato di ricerca in “Economia politica” presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”. Successivamente, è stato ricercatore all’Università degli Studi di Firenze, Scuola di Scienze Politiche “Cesare Alfieri”, dove ha insegnato “Economia del settore pubblico” ed “Economia per le scienze sociali”.
La prefazione è di Ernesto Longobardi, che insegna Scienza delle finanze all’Università degli Studi di Bari. È autore di numerose pubblicazioni di economia pubblica, in particolare nel campo dei tributi e delle relazioni finanziarie intergovernative; si è di recente dedicato a problemi di metodo nell’analisi economica e ad aspetti di storia del pensiero economico.
Il libro cerca di analizzare forme e storia del neoliberismo, partendo dagli economisti neoclassici di fine ottocento da cui prende le mosse. Insieme al neoliberismo, Ventura intende offrire alcune definizioni di “capitalismo”, smascherando frequenti fraintendimenti che aleggiano intorno a tale termine. I temi trattati non sono soltanto economici ma anche filosofici e più prettamente psicologici.
Nonostante i successi delle politiche keynesiane nella ricostruzione del secondo dopoguerra, attorno agli anni ’70 del ‘900 le teorie di Keynes perdono terreno perché “troppo sociali”, non abbastanza remunerative per le grandi imprese private. Come intuibile anche dal titolo, Ventura è molto duro nei confronti del neoliberismo. Questo ha soppiantato il pensiero keynesiano, o meglio, si è preso la rivincita, dopo che fu accantonato a seguito delle gravi crisi scatenatesi intorno e tra le due guerre mondiali. Di crisi ne abbiamo viste anche di recenti ma stavolta il neoliberismo sembrerebbe essere più duro a morire e costituirebbe ancora la teoria di riferimento per il governo delle nostre società. A causa di questo, secondo Ventura, oligarchie sempre più ristrette accumulano ingenti fortune. Ventura vuole dimostrare che il neoliberismo è fondato sull’idea che gli esseri umani siano macchine calcolanti prive di affetti e di pensiero, come priva di pensiero sulla società e sulla natura umana sarebbe la scienza economica che lo sostiene.
Nel volume si rinvengono alcune buone intuizioni. Già nella prefazione, è degna di nota un’osservazione di Longobardi, che troverebbe d’accordo molte persone, anche prescindendo dal colore politico: se le sinistre hanno avuto il grande merito di denunciare la reale povertà materiale in cui versavano amplissime sacche di popolazione, esse hanno avuto ultimamente il demerito di sganciarsi dal reale, smarrendosi in battaglie ideologiche che all’inizio non appartenevano loro, e perdendo così di credibilità e forza, necessarie per contrastare il riemergere dell’ombra nera del neoliberismo, tutto volto a massimizzare il profitto privato più che il benessere della collettività.
Il neoliberismo esalta la grande mano invisibile del mercato: ognuno persegua il proprio interesse personale e tutto andrà bene! Non si intervenga assolutamente sul mercato e sugli scambi privati e insieme ci avvieremo nel migliore dei mondi possibili! Un celebre articolo di Milton Friedman si intitola proprio: “La responsabilità sociale dell’impresa è incrementare i propri profitti”. È proprio vero? Il mercato tende magicamente ad allocare le risorse disponibili nel miglior modo possibile per l’intera collettività? Ventura sfata alcuni miti a riguardo ed evidenzia alcuni importanti elementi che non sono inclusi nei modelli dell’economia neoliberista, primi fra tutti le esternalità e i beni cosiddetti “non rivali” e “non escludibili”, sempre più rilevanti nella nuova economia dell’informazione.
C’è ancora e ci sarà sempre bisogno di politica. L’economia non basta a sé stessa. Ventura non fa riferimento a posizioni, simili alle sue, maturate già da tempo nella Chiesa e, anzi, a onor del vero, sembra che collochi la “morale che viene dalla religione” tra le cose vecchie da superare. Tra tutti gli scrittori che ho letto, è uno dei pochissimi che scrive “dio” al singolare con l’iniziale minuscola, tanto da voler quasi mostrare che la sua opinione sul tema è chiara. Ma è anche vero che il Signore si diverte a seminare dove meno ce lo aspettiamo e a scegliersi suoi propri “veicoli” anche tra chi sembrerebbe lontano, anche a loro insaputa.
Anche Papa Francesco ha messo in guardia più volte contro il mito della mano invisibile. Lo ha fatto anche nel suo documento più famoso (il suo programma, a detta di alcuni):
«Non possiamo più confidare nelle forze cieche e nella mano invisibile del mercato. La crescita in equità esige qualcosa di più della crescita economica, benché la presupponga, richiede decisioni, programmi, meccanismi e processi specificamente orientati a una migliore distribuzione delle entrate, alla creazione di opportunità di lavoro, a una promozione integrale dei poveri che superi il mero assistenzialismo. Lungi da me il proporre un populismo irresponsabile, ma l’economia non può più ricorrere a rimedi che sono un nuovo veleno, come quando si pretende di aumentare la redditività riducendo il mercato del lavoro e creando in tal modo nuovi esclusi» (Evangelii Gaudium, n. 204)