150° anniversario della «Pastor Aeternus»

ARTWORK WITH PART1di Alessandro Clemenzia · Il 18 luglio scorso la Pastor Aeternus ha “festeggiato” il suo 150° anniversario. Era il 1870 quando Pio IX ha indetto – dopo tre secoli dall’ultimo Concilio – il Vaticano I: evento ricordato molto spesso con toni polemici a causa della promulgazione del dogma dell’infallibilità del Romano Pontefice, come se fosse l’istituzionalizzazione del potere assolutistico del Papa. Ci si dimentica però che, proprio per le condizioni imposte al suo esercizio, vale a dire il parlare ex cathedra (circa il soggetto) e su argomenti che riguardano la fede e la morale (circa l’oggetto), di esso si è usufruito una volta soltanto nella storia, in occasione della proclamazione del dogma dell’Assunzione di Maria da parte di Pio XII. Di un altro dogma, invece, sempre contenuto nella Pastor Aeternus, si parla ben poco: il primato di giurisdizione del Romano Pontefice.

Certamente, il Vaticano I è stato un Concilio particolare, se non altro per la vastità degli argomenti da trattare al momento dell’indizione, e per il modo improvviso in cui si è concluso o, meglio, non si è concluso, a causa dell’ingresso a Roma delle truppe piemontesi (il 20 settembre 1870).

Andando oltre al semplicistico slogan “il Concilio dell’infallibilità”, che ancora oggi viene usato in diversi manuali di ecclesiologia, si può cogliere come il contributo che la Pastor Aeternus ha offerto riguardi la decisiva questione dell’unità della Chiesa, tema peraltro che animava l’ecclesiologia romantica e il contesto culturale e sociale dell’Ottocento. Che il tema dell’unità abbia svolto un ruolo essenziale per i padri conciliari è evidente sin dal Proemio, ove si fa riferimento a tutti i fedeli: «Il Pastore eterno e Vescovo delle nostre anime, per rendere perenne la salutare opera della Redenzione, decise di istituire la santa Chiesa, nella quale, come nella casa del Dio vivente, tutti i fedeli si ritrovassero uniti nel vincolo di una sola fede e della carità. Per questo, prima di essere glorificato, pregò il Padre non solo per gli Apostoli, ma anche per tutti coloro che avrebbero creduto in Lui attraverso la loro parola, affinché fossero tutti una cosa sola, come lo stesso Figlio e il Padre sono una cosa sola».

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Pur non trattando direttamente il tema della natura e della missione della Collegialità dei Vescovi (che sarà affrontato dal Concilio Vaticano II nel III capitolo della Lumen Gentium), la Pastor Aeternus mostra, attraverso gli aggettivi che qualificano la potestas del Papa (“piena”, “suprema”) e la modalità del suo esercizio (“ordinaria” e “immediata”), che egli esercita su tutta la Chiesa – e dunque anche su ogni diocesi – la medesima potestà che ogni vescovo esercita nella propria Chiesa locale. La natura “episcopale” della sua giurisdizione spiega chiaramente come la potestà dei vescovi non sia minimamente limitata, ma anzi affermata, corroborata e rivendicata da quella del Romano Pontefice.

La Pastor Aeternus non è il frutto della vittoria di una parte dell’episcopato sull’altra, ma è l’esplicitazione e la riformulazione, da parte della Chiesa, di una nota essenziale della sua natura, l’unità, alla luce di quanto stava avvenendo sul piano politico, sociale, culturale e teologico dell’epoca. Una formulazione di fede che parte dal contesto in cui si vive, in continuità con la Tradizione ecclesiale, non conferisce provvisorietà alla verità che viene espressa, in quanto la storia è il luogo in cui Dio continua a comunicare Se stesso e a introdurre sempre di più la sua Chiesa nel centro della Rivelazione cristiana.

Affermare l’unità significa, contemporaneamente, ribadire il valore della distinzione: la natura della collegialità episcopale, infatti, come ha mostrato chiaramente la Lumen Gentium, trova nella dottrina del Vaticano I sul primato petrino la sua espressione e il suo nucleo portante.