di Stefano Tarocchi • Già in precedenza mi sono occupato della lettera agli Ebrei (Il Cristo, «colui che apre la strada»:http://www.).
Stavolta vorrei affrontare il tema di Abramo e della sua fede, così come viene presentato attraverso la medesima lettera agli Ebrei, che il canone del Nuovo Testamento colloca dopo quelle dell’apostolo Paolo; e, successivamente del medesimo concetto nella lettera ai Romani.
La lettera agli Ebrei, com’è noto, viene definita dagli studiosi come un’omelia, o un “trattato per i cristiani di origine ebraica ed etnica ora ellenizzati” (Attridge), sul sacerdozio di Cristo, basato sul modello del sacerdozio di Melchisedek (Eb 7,15-17), e quello di tutti i battezzati (Eb 10,24).
Solo la conclusione dello scritto la rendono una vera e propria lettera: «Vi esorto, fratelli, accogliete questa parola di esortazione; proprio per questo vi ho scritto brevemente. Sappiate che il nostro fratello Timoteo è stato rilasciato; se arriva abbastanza presto, vi vedrò insieme a lui. Salutate tutti i vostri capi e tutti i santi. Vi salutano quelli dell’Italia. La grazia sia con tutti voi» (Eb 13,22-25).
Si tratta di una scarna aggiunta, che attraverso Timoteo sembra coinvolgere l’apostolo Paolo – del tutto estraneo allo scritto, come si ritiene fin dall’antichità – e credenti della nostra penisola, probabilmente di Roma, assurti a co-mittenti dello scritto, del resto anonimo.
Nel capitolo 11, contenuto nella sezione esortativa della lettera (Eb 10,19-13,17), si parla della fede, definita il «fondamento di ciò che si spera e la prova di ciò che non si vede» (Eb 11,11).
Abramo è anzitutto descritto come colui che, «chiamato da Dio», gli «obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità»: così dice il testo della lettera. E aggiunge che Abramo «partì senza sapere dove andava» (Eb 11,8). Ecco così espresso il totale affidarsi a Dio di questo straniero, emigrato dalla sua terra lontana, che diventerà, secondo la promessa divina, padre di molti popoli («non ti chiamerai più Abram, ma ti chiamerai Abramo, perché padre di una moltitudine di nazioni ti renderò»: Gen 17,5).
La stessa fede racchiude, e dunque caratterizza, l’abitare nella terra promessa come in una terra straniera nell’attesa della città dalle salde fondamenta, progettata e costruita da Dio medesimo.
La fede di Abramo si completa nella fede della moglie Sara, così da far sì che da un «uomo solo, già segnato dalla morte», nasca una discendenza numerosa come le stelle del cielo e come la sabbia sulla riva del mare (cf. Eb 11,11.12).
Secondo la lettera agli Ebrei, Abramo e i padri antichi sono morti senza avere ottenuto i beni promessi , «come stranieri e pellegrini sulla terra» (Eb 11,13). È in questo modo che l’affidarsi a Dio raggiunge il suo culmine e il suo compimento.
Ma è più avanti, nel verso 17 del medesimo capitolo, che si completa la definizione della fede di Abramo in maniera decisamente più stringente: «per fede, Abramo, messo alla prova [peirazómenos], offrì Isacco, e proprio lui, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unigenito figlio, del quale era stato detto: Mediante Isacco avrai una tua discendenza. Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai morti: per questo lo riebbe anche come simbolo» (Eb 11,17-19).
L’uomo su cui Dio aveva gettato il suo sguardo, come aveva detto l’apostolo Paolo, «ebbe fede, saldo nella speranza contro ogni speranza» (Rom 4,18).
Peraltro – sia detto incidentalmente, e in conclusione –, la versione CEI usa, a proposito di Abramo, una traduzione dal testo greco («Abramo fu messo alla prova» [peirazomenos]) che avrebbe dovuto ispirare la nuova versione del Padre Nostro, anziché l’infelice soluzione che si prospetta.