di Giovanni Pallanti • Privato è bello? Fino a poco tempo fa, tutto ciò che era pubblico doveva essere privatizzato. La proprietà pubblica era vista come incapace per la buona gestione di un servizio o per un’efficace conduzione di un’impresa industriale. Così sono state smantellate, in Italia, le Partecipazioni Statali. L’Alfa Romeo fu venduta per 1.000 lire alla FIAT (si trattava ovviamente di una cessione vera con un prezzo simbolico). La SME era stata promessa a De Benedetti dall’allora presidente dell’IRI Romano Prodi alla metà del prezzo che poi fu ottenuto dalla vendita delle diverse aziende SME così come fu imposto dal governo Craxi. Certamente i manager pubblici che hanno gestito le Partecipazioni Statali non sempre sono stati amministratori rigorosi ed onesti. Come sono invece coloro che amministrano le aziende private? Il crollo del Ponte Morandi a Genova ha posto dei seri interrogativi: la Società Atlantia ha distribuito in dieci anni fra i propri soci un utile di circa 9 miliardi e mezzo di Euro. Un bottino record che difficilmente qualsiasi altro imprenditore potrebbe mettere insieme in dieci anni. Ora domandiamoci chi ha costruito l’autostrada A-10: gli italiani con le loro tasse e il Governo italiano tramite alcune società dell’IRI. Per questa ragione, oggi si apre un dibattito pubblico su che cosa è necessario fare delle grandi infrastrutture di servizio (autostrade, rete telefonica, ferrovie, aeroporti, industrie strategiche ecc.). Una riflessione storica è necessaria a questo punto: l’Italia è entrata fra i primi cinque paesi industriali del mondo grazie alle Partecipazioni Statali, alle grandi industrie finanziate dallo Stato che, a loro volta, hanno generato tante piccole e medie imprese private che servivano alla produzione delle grandi imprese industriali e che, successivamente, hanno trovato un loro autonomo mercato. Se non ci fosse stata la scelta, nel secondo dopoguerra, delle Partecipazioni Statali e del mantenimento in vita dell’IRI che fu creato negli anni Trenta del secolo scorso, lo sviluppo industriale dell’Italia non ci sarebbe stato. La grande industria privata ebbe un ruolo passivo. Gli unici che hanno dovuto lottare nel libero mercato, assumendosene i rischi e la fatica, sono stati i piccoli e medi imprenditori che ancora oggi sono l’ossatura portante dell’economia italiana. Allora cosa fare? La presenza della mano pubblica negli asset strategici del Paese deve essere posta a garanzia della loro salvaguardia e delle inevitabili esigenze di rinnovamento strutturale e tecnologico. È necessaria quindi una grande rivoluzione che salvi del passato le cose positive per rafforzare, anche in Italia, la piccola e media impresa privata. Nella seconda metà degli anni Quaranta del Novecento i cristiani democratici sostennero lo sviluppo economico dell’Italia fondato sulla Economia Sociale di Mercato (diventata poi una delle proposte più interessanti della Teologia Morale cattolica). Il Codice di Camaldoli scritto da intellettuali cristiani e antifascisti quando ancora non si erano spenti i fuochi del Secondo conflitto mondiale è all’origine delle scelte economiche sopra ricordate che oggi possono essere riprese dopo una recente stagione di privatizzazioni dissennate.