di Andrea Drigani • Come si sa l’ermeneutica è l’arte di interpretare gli antichi testi ed i documenti, e l’ermeneuta è l’interprete di testi e documenti. Il Concilio Ecumenico Vaticano II con i sui Atti (quattro Costituzioni, nove Decreti, tre Dichiarazioni) è stato oggetto, come peraltro i precedenti Concili Ecumenici, di commenti, studi, ricerche. Ma questa attività ha visto pure delle divergenze, dei contrasti nonché delle divagazioni. Da qui l’esigenza, ribadita anche di recente, di ritrovare delle regole per esercitare l’arte di un’autentica ermeneutica dei documenti del Vaticano II. Ritengo che il punto di riferimento essenziale e fondamentale per comprendere il Vaticano II sia il magistero di Paolo VI. Il Concilio era stato indetto ed inaugurato, nel 1962, da San Giovanni XXIII, ma alla sua morte, nel 1963, per il diritto canonico, il Concilio era ipso iure sospeso e solo il nuovo Romano Pontefice poteva ordinare di proseguirlo o di scioglierlo. Paolo VI, il giorno stesso della sua elezione, ne decretò la continuazione. Sempre secondo il diritto canonico Paolo VI è stato il Pontefice che ha dato forza obbligante agli atti del Vaticano II, con la sottoscrizione insieme agli altri Padri Conciliari, con la conferma e per suo comando la promulgazione. Tra i molteplici interventi di Papa Montini sul Concilio ne vorrei presentare due: uno è l’allocuzione del 7 dicembre 1965 al termine dell’ultima sessione pubblica, l’altro è l’omelia dell’8 dicembre 1966, nel primo anniversario della conclusione del Vaticano II. Nell’allocuzione del 7 dicembre 1965 Paolo VI si chiedeva quale fosse il valore «religioso» del Concilio, intendendo per «religioso» il rapporto diretto col Dio vivente, rapporto che è la ragion d’essere della Chiesa e di quanto la Chiesa crede, spera, ama, è e fa. Dinanzi al laicismo – proseguiva Papa Montini – che sembra la conseguenza del pensiero moderno e la saggezza ultima dell’ordinamento temporale della società, il Concilio nel nome di Cristo e con l’impeto dello Spirito Santo, ha dato una visione profonda e panoramica della vita e del mondo. «La concezione teocentrica e teologica dell’uomo e dell’universo – aggiungeva Paolo VI – quasi sfidando l’accusa di anacronismo e di estraneità, si è sollevata con questo Concilio in mezzo all’umanità, con delle pretese, che il giudizio del mondo qualificherà dapprima come folli, poi, Noi lo speriamo, vorrà riconoscere come veramente umane, come sagge, come salutari». Paolo VI ricordava ancora come i documenti conciliari principalmente quelli sulla Divina Rivelazione, sulla Liturgia, sulla Chiesa, sui Sacerdoti, sui Religiosi, sui Laici, lasciano chiaramente trasparire questa diretta e primaria intenzione «religiosa». La Chiesa del Concilio – continuava Papa Montini- si è occupata, oltre che di se stessa e del rapporto che la unisce a Dio, dell’uomo quale oggi in realtà si presenta, per giungere a rammentare che per conoscere l’uomo, l’uomo vero, l’uomo integrale, bisogna conoscere Dio, come diceva Santa Caterina da Siena: «nella tua natura, Deità eterna, conoscerò la natura mia». Tutto il Concilio – concludeva l’allocuzione – si risolve nel suo conclusivo significato «religioso», altro non essendo che un potente e amichevole invito all’umanità a ritrovare, per via di fraterno amore, quel Dio «dal Quale – per Sant’Agostino – allontanarsi è cadere, al Quale rivolgersi è risorgere, nel Quale rimanere è stare saldi, al Quale ritornare è necessario, nel Quale abitare è vivere». Il tema della fedeltà al Concilio è l’oggetto principale dell’omelia pronunciata da Paolo VI l’8 dicembre 1966, nel primo anniversario della conclusione del Concilio. Nel ribadire il dovere di comprendere e seguire il Concilio per quanto insegna e prescrive, Papa Montini affermava che era necessario evitare due errori: il primo «quello di supporre che il Concilio Ecumenico Vaticano II rappresenti una rottura con la tradizione dottrinale e disciplinare che lo precede, quasi ch’esso sia una novità da doversi paragonare ad una sconvolgente scoperta, ad una soggettiva emancipazione, che autorizzi il distacco, quasi una pseudo-liberazione, da quanto fino a ieri la Chiesa ha con autorità insegnato e professato…il Concilio tanto vale quanto continua la vita della Chiesa; esso non la interrompe, non la deforma, non la inventa; ma la conferma, la sviluppa, la perfeziona». Il secondo errore, per Paolo VI, contrario alla fedeltà al Vaticano II «sarebbe quello di disconoscere l’immensa ricchezza di insegnamenti e la provvidenziale fecondità rinnovatrice che dal Concilio stesso ci viene. Volentieri dobbiamo attribuire ad essa virtù di principio, piuttosto che compito di conclusione». L’ormai prossima canonizzazione di Paolo VI, oltre che ad avere uno nuovo intercessore in cielo, sia di aiuto per favorire nel popolo di Dio una recezione del Vaticano II seguendo i suoi insegnamenti.