Il «Dizionario dell’omo salvatico» ricomparso sotto la polvere

Libri che da sempre ricordo presenti e familiari alla mia vista, ma anche molti da me acquistati fin dagli anni del ginnasio cercando e ricercando ogni giorno come un rito sulle numerose bancarelle, così diffuse un tempo per le strade del centro di Firenze o nei negozi di libri usati, frugando a casaccio nelle ceste o tra gli scaffali per tentare la fortuna sperando di trovare qualcosa di interessante, magari sfuggito ad altri che vi avevano rovistato appena prima di me. Così ricordo che, ancora studente liceale, comprai il mio primo “tesoro” trovato su un barroccino che ancora oggi staziona sotto i portici di Piazza della Libertà. Si trattava delle “Heroides”, una raccolta di epistole di Ovidio, edita nel 1574, dalla copertina in pergamena fissata al volume con stringhe di pelle che attraversano la costola come una cucitura. In quel momento avevo solo venticinquemila lire risparmiate tra una paghetta e l’altra. Il costo era di trentamila. Per avere lo sconto me la cavai con una battuta dicendo al venditore che quel libro era “un po’ vecchiotto”. Prontamente lui replicò “ma cosa dici, sono io un po’ vecchiotto!”, senza però indugiare nel porgermi quel desiderato libro al prezzo a me conveniente. Col batticuore tornai speditamente a casa per gustarmi la preda che avevo scovato e subito tentare di decifrare sul foglio di guardia le firme con le date che segnavano i passaggi di proprietà da un secolo all’altro, come pure le annotazioni ai margini delle pagine scritte con un inchiostro color seppia che a volte aveva perforato la carta.

Nel mio frugare oggi qua e là, come un tempo facevo sulle bancarelle, la mia attenzione si sofferma su alcuni libri ingialliti, con la copertina e le pagine fragilissime come bruciate dal calore del sole, nella loro prima edizione, sono Domenico Giuliotti, Giovanni Papini, Federico Tozzi, Ardengo Soffici, Filippo Tommaso Marinetti, Giuseppe Prezzolini, Aldo Palazzeschi, Roberto Ridolfi, e via via altri di quell’epoca, finché ne estraggo uno poggiato in orizzontale sugli altri, e mi ritrovo tra le mani il “Dizionario dell’omo salvatico” composto a quattro mani da Giovanni Papini e Domenico Giuliotti, edito nel 1923 dalla Vallecchi.

Un’epoca assai feconda fu quella che vide i due autori aspramente, ma lealmente contrapposti sul piano letterario come duellanti rusticani, che ci riporta ai primi decenni del novecento, segnati dalla rivista “La Torre”, organo della reazione spirituale italiana del cattolicesimo tradizionalista, fondata nel 1913 da Domenico Giuliotti e Federico Tozzi. Già nel primo numero uscito il 6 novembre 1913 Giuliotti rendeva bene l’idea dell’orientamento della rivista scrivendo “La nostra fede è un inginocchiatoio e un coltello. La tolleranza è indifferenza: chi crede vuole che gli altri credano. Noi siamo intolleranti”. La rivista “La Torre” prendeva di mira la modernità in generale e in particolare il razionalismo, il modernismo e il futurismo.

L’altra rivista su cui risaltava aspro il confronto tra le parti si intitolava “Lacerba” che vide la luce il 1° gennaio 1913, fondata da Giovanni Papini e Ardengo Soffici, dopo essersi staccati dalla rivista “La Voce”. Sulla linea della rivista “Il Leonardo” fondata dallo stesso Papini nel 1913, Lacerba fu caratterizzata dall’adesione al Futurismo e dal nichilismo, esprimendosi con aspra e violenta polemica contro il conformismo e le espressioni borghesi dell’arte e del costume. Lacerba cessò la stampa nel 1915.

Sulle pagine di Lacerba Papini coniò l’espressione “cattolici belve” per demolire la rivista del Tozzi e del Giuliotti. Sulla stessa rivista Papini scriveva: “Tutto è nulla, nel mondo, tranne il genio. Le nazioni vadano in sfacelo, ma crepino di dolore i popoli se ciò è necessario perché un uomo creatore viva e vinca. Le religioni, le morali, le leggi hanno la sola scusa nella fiacchezza e canaglieria degli uomini e nel loro desiderio di star più tranquilli e di conservare alla meglio i loro aggruppamenti. Ma c’è un piano superiore dell’uomo intelligente e spregiudicato in cui tutto è legittimo. Che lo spirito almeno sia libero!”. Non tarderà a giungere la risposta del Giuliotti su La Torre: “La religione è l’unico cemento che non screpola, collega fra di loro le pietre dell’edificio sociale: togliete la religione e procederete ciechi a quattro zampe, tra le macerie e gli sterpi. La religione è il cattolicesimo. Il Vangelo è il Tempio dell’assoluta Verità vivente. La Chiesa cattolica ne è la porta”.

Nell’arco di dieci anni, le due figure così distanti per posizioni ideologiche e di credo religioso, ma così speculari nel loro carattere aspro e ruvido, ebbero un progressivo avvicinamento che sfociò nella conversione del Papini e in una strettissima amicizia durata per un quarantennio fino alla morte, avvenuta per entrambi nello stesso anno, il 1956.

La conversione del Papini, come già era avvenuto per Giuliotti, aveva fatto seguito a un lungo e turbolento percorso. Dalla prima confessione del Papini che si esprimeva nel titolo della sua opera “Un uomo finito” del 1912, occorrerà attendere gli anni successivi alla prima guerra mondiale per vedere venire alla luce “La storia di Cristo” pubblicata nel 1921 che segnava il traguardo raggiunto della sua conversione. Un percorso accompagnato e sostenuto dall’amicizia del Giuliotti, quel “cattolico belva” come ebbe a definirlo il Papini su Lacerba negli anni dissacratori, finendo egli stesso per riconoscersi in questo attributo come un suggello della sua conversione.

Il “Dizionario dell’omo salvatico” prende di mira gli illuministi enciclopedisti, i massoni e i socialisti, i democratici. Non mancano fin dalle dediche introduttive all’opera, gli attacchi contro i “cattolici chiocciole” che restano protetti dal loro guscio per non vergognarsi di dare testimonianza della loro appartenenza religiosa. I “cattolici belva” dicono di se stessi “noi amiamo di cristiano amore le chiocciole, ma preferiamo andar per il mondo vestiti, come il gran Salvatico Giovanni nostro patrono, di pelli di belve” che a differenza di loro non accettano di venire a patti con la civiltà moderna.

L’aneddotica è stata molto feconda nel tentativo di spiegare perché il Dizionario si sia fermato alle prime due lettere dell’alfabeto. Certo è che l’intenzione degli autori con il messaggio che volevano lanciare si era già pienamente realizzata anche con il solo primo volume. Nondimeno, l’interesse di questa opera per lo studioso va oltre le contingenze di quel momento, ma per molto tempo la conoscenza del “Dizionario dell’omo salvatico” è stata appresa dai più solo come un titolo letto su qualche manuale di storia della letteratura, finché dopo ben ottantanove anni, rimasto simbolicamente sepolto sotto la polvere, nel 2012 l’opera è tornata negli scaffali delle librerie per iniziativa dell’Edizioni Il Cerchio. Una ingiustificata “dimenticanza” dal sapore oscurantista che fa il pari con lo stile di questo libro.

Cambiano i tempi, le mode letterarie e le ideologie. Un aforisma giuridico suona “tempus regit actum” che trasposto al nostro caso sapientemente ci illumina che la cultura a noi contemporanea non deve farci voltare lo sguardo per pregiudizio da ciò che è ormai a noi lontano per il tempo e l’interesse. Per capire il passato occorre calarci in esso. Le schermaglie tra riviste letterarie e gli scontri rozzi e virulenti tra Papini e Giuliotti non possono smettere di interessarci, anche se anacronistici e appartenenti a un mondo lontano dal nostro.

Per questo posso dire con orgoglio che tra i tanti libri impolverati della mia ritrovata biblioteca non esistono tracce di alcun pregiudizio. Per esempio, a riprova di questo, oltre al “Dizionario dell’omo salvatico”, mi sono ritrovato tra le mani per caso anche il “Libretto rosso di Mao” nell’edizione originale, un acquisto che feci con interesse pur senza nutrire attrazione per quella ideologia.