«Trasumanar significar per verba…». Dante, la poesia, la teologia

Dante in Paradisodi Francesco Vermigli · S’appressa a grandi falcate il centenario della morte di Dante e vorrei dire qualcosa del messaggio che egli lascia circa la teologia e la poesia. Non è cosa nuova, si dirà, trattare di Dante e della riflessione su Dio che trapela dalla sua poesia: molti ne hanno trattato, basti pensare al nome eccelso di Bruno Nardi o più recentemente a Lino Pertile. E quest’attenzione è stata consacrata anche dal Magistero che nell’ultimo secolo ad ogni anniversario dantesco ha ricordato come la sua stessa poesia sgorgasse dalla fede della Chiesa: si pensi al motu proprio di Paolo VI Altissimi Cantus del 7 dicembre 1965 e prima all’enciclica di Benedetto XV In praeclara summorum del 30 aprile 1921. Così Paolo VI: «Qualcuno potrebbe forse chiedere come mai la Chiesa cattolica, per volontà e per opera del suo Capo visibile, si prenda così a cuore di celebrare la memoria del poeta fiorentino e di onorarlo. La risposta è facile e immediata: Dante Alighieri è nostro per un diritto speciale: nostro, cioè della religione cattolica» (Altissimi Cantus, 9).

Pare a questo punto necessario spiegare il titolo. Esso reca una citazione da Paradiso I,70-71 («Trasumanar significar per verba / non si porìa»): frase che ha un contesto specifico, si tratta del racconto mitologico della divinizzazione di Glauco, a causa di un’erba che aveva assaggiato. Ma quel verso e mezzo che abbiamo citato, può ben rappresentare lo scopo della poesia di Dante, il compito superiore alle proprie forze che essa si dà. Dante vuol dire che provare a descrivere con le parole la trasfigurazione dell’umano, la sua elevazione al di sopra del limiti naturali è impossibile.Dante_Domenico_di_Michelino_Duomo_Florence

Dante e la sua poesia insegnano alla teologia di oggi e di ogni tempo il Deus semper maior: che Dio è maggiore del concetto, dell’immaginazione, della parola, della nostra riflessione. La poesia quando si reca tra le lande sconfinate della verità divina, insegna alla teologia l’umiltà e la precarietà della propria opera. Ma insegna anche che qualcosa è necessario dire, su qualcosa è opportuno riflettere. La poesia dantesca dà fiducia alla teologia, quando essa scopre il limite della propria capacità conoscitiva: perché chi ha cercato di toccare Dio non è come prima. Come Dante che torna cambiato alla vita di quaggiù, ad usare le solite parole, a riveder le stelle. Così accade alla teologia, quando essa davvero tocca Dio.