Il culto della Madonna e la religiosità popolare, grandissimo tesoro per la Chiesa, vanno purificati da ogni elemento mafioso o superstizioso

268 188 Francesco Romano
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5450255_1433_parolindi Francesco Romano • Il contrasto alla criminalità organizzata, di cui mafia e ‘ndrangheta rappresentano la piaga più dolorosa che continua ad affliggere la convivenza sociale, sconfinando decisamente dai territori di origine, vede impegnate da molti decenni le migliori energie dello Stato nel tentativo impari di sradicarle. Anche la Chiesa ha fatto un lungo percorso di crescita nello sforzo di isolare la commistione socio religiosa che caratterizza queste organizzazioni malavitose che ricorrono anche a quei simboli e pratiche devozionali molto vissuti nella religiosità popolare.

È significativo che ancora una volta la Chiesa sia dovuta intervenire in modo drastico, chiaro e inequivocabile attraverso l’intervento fatto dal Segretario di Stato vaticano Card. Pietro Parolin in occasione della visita a Catanzaro al Santuario di Torre di Ruggiero per la festa della Madonna delle Grazie.

Il monito del Card. Parolin trae spunto dai rituali mafiosi e religiosi che vengono spesso praticati soprattutto nelle processioni con le statue di santi e madonne fatti sostare da infiltrati per un inchino sotto le finestre dei boss. Per questo il Card. Parolin ha detto che il culto della Madonna e la religiosità popolare, grandissimo tesoro per la Chiesa, vanno purificati da ogni elemento mafioso o superstizioso.

Sono parole che fanno eco a quelle pronunciate da Papa Francesco nel 2018 in occasione della visita a Palermo: “Quando la Madonna si ferma e fa l’inchino davanti alla casa del capo mafia, no quello non va, non va assolutamente”. E ai preti siciliani, riuniti in cattedrale, raccomandò: “Vi chiedo di vigilare attentamente, affinché la religiosità popolare non venga strumentalizzata dalla presenza mafiosa, perché allora, anziché essere mezzo di affettuosa adorazione (rectius: venerazione), diventa veicolo di corrotta ostentazione”.

Nella visita a Cassano nello Jonio nel 2014, Papa Francesco ha parlato apertamente di scomunica per i mafiosi. Parole pronunciate con immediatezza e forza, tese a raggiungere e scuotere le coscienze di tutti, principalmente di coloro che vivono e agiscono in questa gravissima condizione di peccato, ma anche di coloro che patiscono a livello personale o sociale le conseguenze di un male così radicato, per far loro sentire che tutta la Chiesa è presente e ne condivide le sofferenze nell’aiutarli a portare i pesi.5cc0ddba2400004f002426e0

L’impegno della Chiesa contro la criminalità di stampo mafioso, radicata nei suoi celebri luoghi nativi, può fare riferimento a tre date importanti 1944, 1952 e 1982. L’Episcopato siciliano in una lettera collettiva del 1944 emanava la condanna di scomunica nei seguenti termini: “Sono colpiti di scomunica tutti coloro che si fanno rei di rapine o di omicidio ingiusto e volontario”. Ancora non compare la parola “mafia”, ma il riferimento a essa per il comportamento delittuoso condannato e per i luoghi ove si realizzava è chiaro.

Nel 1952 il secondo Concilio Plenario Siculo – che in quanto concilio plenario, ha potestà legislativa per il proprio territorio (can. 290 Codex 1917; can. 445 Codex 1983) – recependo il contenuto del documento del 1944, individua con più chiarezza i delitti che sono tipici della mafia e la pena prevista includendo anche i mandanti e i cooperatori, ma senza ancora pronunciare in modo esplicito la parola “mafia”: “Coloro che operano rapina o si macchiano di omicidio volontario, compresi mandanti, esecutori, cooperatori, incorrono nella scomunica riservata all’Ordinario”.

Dovremo attendere il 1982, dopo l’uccisione del Prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa, quando la Conferenza Episcopale Siciliana, confermando le precedenti scomuniche, ne individua esplicitamente la matrice mafiosa: “A seguito del doloroso acuirsi dell’attività criminosa che segna di sangue e di lutti la nostra regione, i Vescovi, in forza della loro responsabilità di pastori, riaffermano la loro decisa condanna sottolineando la gravità particolare di ricorrenti episodi di violenza che spesso hanno come matrice la mafia e la nefasta mentalità che la muove e la facilita”.

Nella “Nota” di Novica che accompagnava il suddetto documento, venivano delineate le conseguenze della scomunica: “la condizione di scomunicato emergerà quando l’autore di uno dei due delitti si accosterà alla confessione per essere assolto dal peccato: il sacerdote lo informerà che non può assolverlo in quanto colpito da scomunica che i vescovi hanno riservato a se stessi, dalla quale, cioè, soltanto loro possono assolvere”.

La novità che emerge dalle parole pronunciate da Papa Francesco è l’esplicita condanna del comportamento mafioso con la commissione individuale di determinati atti criminali tipici della mafia, e non solo, ma anche la stessa appartenenza all’organizzazione mafiosa: “Coloro che nella loro vita seguono questa strada di male, come sono i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono scomunicati”.

Il Papa vuole sottolineare che, oltre alla commissione di specifici delitti, è l’essere di per sé un mafioso che costituisce un delitto e necessita di una pena. Si tratta di delitti che hanno un grave risvolto sociale: “coloro i quali vivono di malaffare, di violenza e disprezzo del bene comune”, “interesse personale e sopraffazione”, ma sono anche delitti contro la religione come il delitto di idolatria e di apostasia, cioè la “adorazione del male”. Infatti, aggiunge il Papa, “Quando all’adorazione del Signore si sostituisce l’adorazione del denaro, si apre la strada al peccato”.

L’idolatria e il rifiuto del Signore per adorare il denaro sono veri e propri atti di rifiuto della fede cristiana, sono per questo delitti di apostasia sanzionati dal can. 1364 §1 con la scomunica “latae sententiae”, ma le categorie che definiscono l’identità e l’appartenenza mafiosa, ‘ndranghetista ecc. necessitano una tipizzazione del delitto anche sul piano nominalista. Un punto di grande rilievo nella condanna pubblica fatta dal Sommo Pontefice sarebbe la volontà di estendere a livello di legge universale la pena di scomunica per il delitto di appartenenza mafiosa e i relativi atti criminali, cioè oltre i confini di una regione, non essendo più da considerarsi solo una piaga locale.

Un altro risvolto presente nel discorso del Papa Francesco è l’aver puntato fortemente il dito sull’identità pseudo religiosa del mafioso. La sua religiosità è idolatria, di cui si ammanta volentieri simulando comportamenti devozionali, spesso anche in modo visibile, inconciliabili con l’appartenenza alla Chiesa fino a sfociare in azioni omicidiarie quando il Pastore cerca di difendere il suo gregge dal contagio della mentalità nefasta e fuorviante che porta al fraintendimento della vera religione, oltre che al reclutamento, spesso anche di minori. Si potrebbero ravvisare in questa fattispecie i tratti tipici del delitto contemplato dal can. 1374: “Chi si iscrive a un’associazione che trama contro la Chiesa, sia punito con giusta pena; chi poi promuove o dirige una tale associazione sia punito con l’interdetto”, al quale il Papa attribuisce in questo caso, ma ancora in modo orale, la pena massima della scomunica.

Le parole pronunciate da Papa Francesco sono in stretta continuità con quelle pronunciate dai suoi due predecessori, San Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi, e Benedetto XVI a Palermo. Giovanni Paolo II definì la mafia “civiltà di morte”, aggiungendo: “Lo dico ai responsabili: convertitevi! Un giorno verrà il giudizio di Dio!”. E Benedetto XVI gli faceva eco: “Non cedete alle suggestioni della mafia, che è una strada di morte”.

Papa Francesco non mette solo in evidenza il peccato grave in cui si trovano i mafiosi, per i quali “un giorno ci sarà il giudizio di Dio”. Egli dice che già da ora questa condizione di peccato dei mafiosi è un vulnus per la comunione con la Chiesa: “non sono in comunione con Dio”, ma le parole che pronuncia subito dopo in senso rafforzativo: “sono scomunicati!”, vogliono significare che non allude solo alla comunione mistica a motivo del peccato, indicando anche quale sia il delitto che comporta la scomunica, cioè l’idolatria, l’adorazione del denaro che prende il posto dell’adorazione per il Signore ecc. ecc.

A conclusione dobbiamo rilevare che la scomunica essendo una pena canonica necessita di un testo legale, cioè una legge (o un decreto penale) emanata in forma scritta e promulgata dalla competente autorità munita di potestà legislativa, in cui sia determinata la fattispecie delittuosa, il tipo di pena, “latae sententiae” o “ferendae sententiae”, l’autorità che la può irrogare e rimettere, il tempo di prescrizione ecc.

La scomunica per i delitti di mafia che i Vescovi della Sicilia hanno deciso di comminare a coloro che se ne macchiano, è una legge penale particolare. Ormai il fenomeno mafioso nei molteplici aspetti e nelle diverse nomenclature è molto diffuso e va oltre i confini della Sicilia e dell’Italia stessa fino a radicarsi in territori una volta insospettabili e in tutti gli ambiti legati soprattutto al potere economico: mercato della droga, sfruttamento della prostituzione, vari tipi di racket dall’usura al pizzo fino alle onoranze funebri, edilizia, attività commerciali, infiltrazioni nella vita politica e gestione del potere a livello locale e nazionale ecc. ecc. In questo senso assume grande rilievo che il Papa Francesco, in quanto legislatore universale, abbia ben delineato i comportamenti delittuosi della mafia e della ’ndrangheta e ravvisato la necessità che concretamente i mafiosi siano scomunicati con una pena canonica da irrogare.

Ciò che appare evidente è che l’intervento del Papa, in alcuni passaggi pronunciati anche a braccio, vede ogni associazione malavitosa assimilata a quella di mafia e di ’ndrangheta, come un’unica categoria da condannare senza limiti o differenziazioni territoriali. Non sarebbe comprensibile che un delitto di stampo mafioso nelle Diocesi della Sicilia venisse punito con la norma penale territoriale della scomunica, mentre se commesso in un’altra regione restasse indifferente alla pena non essendoci una stessa sanzione canonica.

Questo vuoto normativo a livello universale lo si può comprendere con la difficoltà che si è avuta nel conoscere i meccanismi con cui il malaffare legato a questa tipologia di associazioni criminali abbia potuto insinuarsi e radicarsi in tutti i gangli della società, ovunque, sia dal punto di vista territoriale nazionale e internazionale che dal punto di vista del coinvolgimento di persone insospettabili, anche moralmente, a volte anche a livelli istituzionali più alti dello Stato.

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Francesco Romano

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