di Andrea Drigani · Il primo significato della parola «segreto» è quello di appartato, celato nell’intimo, particolare, dal termine latino «secretus», derivante dal verbo «secernere» che vuol dire, appunto, separare, mettere in disparte. Così si spiega il titolo «I diari segreti» di Giulio Andreotti (1919-2013), usciti recentemente per l’Editore Solferino, a cura dei figli Serena e Stefano con l’introduzione di Andrea Riccardi. Come annota Riccardi: «Questi sono veramente Diari segreti. Giulio Andreotti li compilava solo per sé e se serviva come un aiuto alla memoria». Questi diari sono state preceduti, nella pubblicazione, da altri diari tra i quali sono da rammentare quegli degli anni della «solidarietà nazionale» (1976-1979). I Diari segreti riguardano un arco temporale di dieci anni dal 1979 al 1989, durante i quali Giulio Andreotti ricoprì prima l’incarico di Presidente della Commissione Affari Esteri della Camera dei Deputati (1979-1983), quindi di Ministro degli Affari Esteri (1983-1989), fino a quando divenne, per la settima volta, Presidente del Consiglio dei Ministri. In effetti il filo conduttore di queste memorie personali sono proprio la politica internazionale, le relazioni tra gli Stati, una passione per il mondo. All’insegna, come annota Riccardi, di una «cattolicità romana» non solo in senso confessionale, ma culturale. In questo contesto si muove l’azione diplomatica di Andreotti, in costante contatto con la Santa Sede, per impedire le guerre e il nazionalismo. Dagli appunti si vede, tra l’altro, l’attenzione per le complicate questioni mediorientali, anche col coinvolgimento della Chiesa greco-cattolica melkita, e per la tutela dei profughi iracheni cristiani. Ragguardevole anche la sua opera per cercare di togliere il Mozambico, pervenuto di recente all’indipendenza e travagliato da una guerra civile, dall’influenza sovietica e per realizzare un accordo di pace in un paese africano tra i più poveri del mondo. Sull’America Latina, i Diari segreti di Andreotti, svelano un grande lavoro, pure con l’intesa dei partiti democristiani allora assai presenti in quell’area dominata da regimi autoritari. Balza agli occhi la sua tenace volontà di negoziare, per dare concretezza al dialogo, profondamente convinto di un’affermazione di Pio XII nel 1939 che lo aveva impressionato : «Nulla è perduto con la pace. Tutto può esserlo con la guerra. Ritornino gli uomini a comprendersi. Riprendano a trattare». E’ da segnalare che nel 1988, durante una visita in Cina, Andreotti incontrò il vescovo «patriottico» di Pechino, che lo pregava di dire a Giovanni Paolo II che bisognava trattare col governo cinese. Andreotti, non solo nei diari, ha sempre espresso la sua opinione favorevole per risolvere la questione cattolica in Cina, perciò non si mise a difendere la Chiesa «clandestina», come non attaccò quella «patriottica». Rilevanti appaiono le sue azioni per lo sviluppo e l’allargamento della Comunità Europea, presupposto per un grande salto di qualità e di crescita per l’intera comunità internazionale. Non si precluse a iniziative di confronto e di ricerca di nuovi equilibri con gli Stati comunisti. Giulio Andreotti, anticomunista e antifascista, in quanto sincero democratico alla scuola di Alcide De Gasperi (1881-1954), non si scandalizzò della cosiddetta «Ostpolitk» vaticana forse convinto che, prima o poi, il totalitarismo d’origine marxista, almeno in Europa, sarebbe finito, perché conteneva in nuce gli elementi che avrebbero inevitabilmente condotto alla dissoluzione. Andrea Riccardi rileva, nell’introduzione, che Giulio Andreotti non è soltanto l’uomo delle relazioni internazionali, ma è l’uomo che si è dedicato tanto alla politica italiana, orgoglioso del ruolo del suo partito, la DC, nell’Italia del dopoguerra e nella ricostruzione. «La DC – scrive Riccardi – è una sua grande passione…E’ rimasto sempre un democristiano convinto, anche dopo la scomparsa del suo partito».