di Gianni Cioli · «La fondamentale differenza tra la bellezza greca e la bellezza cristiana è proprio questa: i greci individuavano la bellezza nel logos, nell’armonia che proporziona gli elementi corporei e spirituali; i cristiani identificano la bellezza nell’amore, nell’agape, cioè nel dono della vita. I cristiani non negano affatto il logos, affermando anzi che la realtà è ordinata e prende significato da Cristo, logos nel quale Dio ha creato il mondo (cf. Gv 1,1-3); però danno un nome più concreto a questa armonia, chiamandola agape, dono di sé. Dio stesso è chiamato “amore”, agape (cf. 1 Gv 4,8.16), proprio perché è dono. Il dio greco è armonia in sé, mentre il Dio cristiano è dono di sé; il dio greco è compreso da se stesso, autarchico, mentre il Dio cristiano esce da se stesso, si offre all’uomo. La bellezza, per i cristiani, non è una qualità racchiusa nell’oggetto, una bellezza semplicemente da ammirare; è invece una bellezza che esce da se stessa, una bellezza da accogliere» (E. Castellucci, Eucaristia e vita sacerdotale, di prossima pubblicazione su Vivens homo).
Queste parole pronunciate dal Vescovo Erio Castellucci nella Basilica fiorentina di San Lorenzo il 25 settembre 2020 in occasione della celebrazione del cinquantesimo anniversario di ordinazione presbiterale del Card. Giuseppe Betori, mi hanno stimolato a riflettere sulla bellezza della morale cristiana e sul suo rapporto con la bellezza della morale umana. Sicuramente c’è una bellezza della morale umana che consiste nel riconoscimento e nell’attuazione della giusta misura nel rapporto con se stessi e nel rapporto con gli altri. Come afferma Tommaso d’Aquino, citando Aristotele «la virtù morale è un abito elettivo che sta nel giusto mezzo» (I-II q. 64 a. 1 s. c.). La bellezza della morale cristiana, tuttavia, non si accontenta del giusto mezzo. Infatti le virtù teologali, fede, speranza e carità, come afferma sempre Tommaso, non consistono, per quanto concerne la loro ragione intrinseca (secundum ipsam rationem virtutis), in un giusto mezzo, ma in un asintotico movimento di sbilanciamento verso il «senza misura» di Dio (Gv 3, 34): «l’uomo non potrà mai, né amare Dio quanto è tenuto ad amarlo, né credere o sperare in lui quanto è necessario. A maggior ragione non potranno in questo esserci degli eccessi» (I-II q. 64 a. 4 co.). Tuttavia sarebbe sbagliato credere che la bellezza della morale cristiana possa eludere l’impegno di delineare la giusta misura dell’agire. Per essere praticate le virtù teologali hanno bisogno della pratica delle virtù cardinali che necessitano della determinazione della giusta misura. Non ci può essere vera carità, ad esempio, se si elude l’impegno per la giustizia (ovvero a dare a ciascuno il suo, determinandolo nella misura dovuta). D’altra parte la storia dei fanatismi religiosi, anche in ambito cristiano (pensiamo al famigerato falso misticismo e al dominio delle coscienze talora collegato a gravi e ben noti abusi), ci spinge a non confondere ogni abbondanza di zelo negli atteggiamenti religiosi con l’autentico esercizio della vita teologale. A questo proposito lo stesso Tommaso riconosce che, «rispetto a noi» (ex parte nostra), «si può indirettamente determinare un giusto mezzo» anche «nelle virtù teologali», infatti, «sebbene non si possa amare Dio quanto si deve, tuttavia dobbiamo avvicinarci a lui, credendo, sperando e amando, secondo la misura della nostra condizione» (I-II q. 64 a. 4 co.). Educare alla bellezza della misura e quindi al senso del limite, contrastando con coraggio l’odierna cultura dell’eccesso, appare una sfida di capitale importanza per il futuro della nostra società. Pensiamo all’importanza d’imparare ad abitare il limite, per quanto concerne l’ecologia ambientale, ma anche alla necessità di apprendere a gestire le emozioni per quanto concerne l’ecologia umana tanto cara a Papa Francesco. La bellezza della morale cristiana consiste nella disposizione al dono di sé senza misura, ovvero senza calcoli di tornaconti personali, tipico della carità, ma tale disposizione necessita, per attuarsi nella concretezza della condizione umana, anche dell’attenzione alla misura insita nell’esercizio della prudenza e di tutte le virtù morali. La bellezza “smisurata” della morale cristiana accoglie e porta a compimento la bellezza “misurata” della morale umana, alla quale, del resto, non può rinunciare. Certo, nell’orizzonte del cristiano non c’è la bellezza di una perfezione autoreferenziale (cf. Mt 5,48; Lc 6,36) congruente con una concezione autarchica del Logos. L’anelito del cristiano alla misura giusta e bella, nelle sue emozioni come nelle sue azioni, si pone a servizio della sua risposta alla misericordia divina che chiama alla misericordia. È una risposta che s’incarna nell’esercizio di un culto “ragionevole” (logike latreia) attuato mediante un paziente discernimento, come sintetizza con estrema efficacia Paolo nella Lettera si Romani: «Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale (logike latreia). Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rm 12,1-2).