di Alessandro Clemenzia • La questione ambientale, e la conseguente responsabilità dell’uomo nella salvaguardia del creato, si presenta oggi come una vera e propria emergenza a livello planetario. L’enciclica Laudato si’ (LS) di Papa Francesco, in questa situazione allarmante, non è una voce fra tante, ma vuole essere una chiara e ufficiale presa di posizione della Chiesa sull’uomo e sulla sua vocazione.
Ma in quale situazione stiamo realmente vivendo? «In sette mesi, dal primo gennaio al 31 luglio, il pianeta ha esaurito tutte le risorse naturali che è in grado di rinnovare in un anno. Nei successivi mesi del 2018 l’uomo è vissuto “a credito”, consumando ciò che la terra non è riuscita a rigenerare» (p. 7). Con queste parole risponde il vescovo teologo Erio Castellucci, a introduzione del suo nuovo libro, intitolato La tela sfregiata. La responsabilità dell’uomo nel creato (Cittadella Editrice 2019). E la questione si fa ancora più allarmante dal momento che la situazione, di anno in anno, sembra sempre più retrocedere. A quali livelli si potrebbe arrivare nel giro di uno o due decenni?
Partendo da questa domanda, l’Autore presenta quattro modelli, che per certi aspetti potrebbero dirsi “esemplari”, che illustrano il differente modo in cui, lungo la storia, l’essere umano si è messo in relazione con la natura: in primo luogo, considera l’uomo della preistoria, il quale, da un lato, per la sua sopravvivenza era capace di sfruttare appieno l’ambiente, e dall’altro, cercava comunque di controllare l’ignoto e la maestosità della natura attraverso dei riti religiosi; in secondo luogo, gli antichi egiziani, i quali, soprattutto grazie all’invenzione della scrittura, che permetteva loro di fare memoria delle nozioni acquisite, senza dover ogni volta riavviare la scoperta della realtà, erano riusciti a godere della natura attraverso le prime forme di tecnica per costruire il loro ambiente vitale; in terzo luogo, i greci, i quali, grazie al passaggio dal Mythos al Logos, si erano inseriti nella natura come se fosse il frutto di una serie di meccanismi mossi dalla causalità. L’ultimo modello è quello industriale, dove l’uomo ha ormai acquisito «una graduale e inesorabile consapevolezza delle proprie dimensioni microscopiche rispetto all’immensità dell’universo» (p. 19) e, attraverso la rivoluzione industriale, è arrivato a sfruttare le risorse naturali.
A partire da questi quattro modelli, Castellucci presenta il significato e il valore del creato nella tradizione ebraico-cristiana, spesso accusata di essere all’origine di una s-divinizzazione della natura. La creazione, per l’uomo ebreo, certamente non è Dio, in quanto è assolutamente trascendente rispetto al cosmo, ma è da Dio e di Dio; per questo non può accedere ad essa attraverso un miope sfruttamento. La creatura, proprio in quanto immagine e somiglianza del Creatore, è ontologicamente caratterizzata da: un rapporto con Dio (dimensione religiosa), un rapporto con gli altri (dimensione sociale), un rapporto con se stessi (dimensione esistenziale) e, infine, un rapporto con il creato (dimensione ambientale). Il peccato, contaminando l’essere dell’uomo, ha provocato una ferita profonda in tutti e quattro gli ambiti. Questa ferita, secondo la rivelazione cristiana, nel Verbo incarnato viene transustanziata; il cosmo, creato per/in/verso Cristo, partecipa della sua Pasqua: «La natura, così, può essere benevola o malvagia, favorevole o sfavorevole all’uomo: come lui è anch’essa malata. […] Per dirla in termini tipicamente cristiani: anche sulla natura si stende l’ombra della croce» (p. 36).
Eppure, anche questa creazione transustanziata sta piano piano facendo sbiadire i colori originali utilizzati dal Creatore: tra le materie che si stanno esaurendo e un inquinamento sempre più devastante, prendono il sopravvento delle forti disuguaglianze sociali. Ma in tutta questa situazione, all’insegna del negativo, da dove si può cominciare per compiere una reale inversione di marcia? In continuità con il magistero precedente, papa Francesco trova nella fraternità la risposta efficace alla crisi ecologica, in quanto nella realtà «tutto è connesso» (LS 16, 117 e 138), «tutto è in relazione» (LS 92). Il degrado ambientale, infatti, è così strettamente legato al degrado umano che il superamento della crisi ecologica si può attuare unicamente oltrepassando quell’individualismo sfrenato, che si manifesta oggi nelle diverse logiche economiche di potere, e che, perdendo sempre più il senso del limite, punta al primato del produrre e dell’avere sull’essere.
La grande questione, dunque, è di natura antropologica: «L’homo faber, tentato di sfruttare la natura come semplice cava di materiali, e l’homo oeconomicus, tentato di attingervi come ad una cassa continua da esaurire, devono integrarsi nell’homo sapiens, capace di sfruttare la propria intelligenza per vivere e mantenere la casa comune. L’alternativa all’homo sapiens sarà l’homo demens, che distruggendo la propria casa finisce per distruggere se stesso» (pp. 74-75).
L’unica opzione: il ripartire dalla fraternità!