di Antonio Lovascio • Mettiamo da parte per un momento l’Europa stanca e divisa che vede prevalere i nazionalismi, i Mercati e il nostro Spread che torna ad impazzire di fronte allo spericolato ottovolante Giallo-Verde, le guerre commerciali sui dazi tra USA, Cina e il Vecchio Continente. E andiamo a rileggere l’intervista che Papa Francesco ha concesso il 7 settembre a “Il Sole-24 Ore”, il giornale di Confindustria. Bergoglio ancora una volta stupisce per la lucidità con cui parla di crisi della globalizzazione (“Il mondo si è fatto in qualche modo piccolo”), di economia dello scarto (“Chi viene escluso, non è sfruttato ma completamente rifiutato, cioè considerato spazzatura”); di lavoro e di etica dell’impresa “amica della persona”, di attività finanziaria al servizio dell’economia reale e non viceversa. Offrendo anche a chi governa in Italia o nelle altre Nazioni tanti spunti di riflessione. E soprattutto alcune sagge risposte sui problemi – o meglio: sulle emergenze – che stiamo vivendo.
Con il “filo rosso” della sua analisi, che riprende alcuni temi già elaborati nell’Evangelii Gaudium, il Pontefice aggiorna la dottrina sociale della Chiesa ai nostri tempi, richiamando più volte Paolo VI che nell’enciclica Populorum progressio scriveva: «Lo sviluppo non si riduce alla semplice crescita economica. Per essere autentico sviluppo, deve essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo, fino a comprendere l’umanità intera>.
Papa Francesco ne è convinto: l’attuale centralità della Finanza rispetto all’economia reale non è casuale: “Dietro c’è la scelta di qualcuno che pensa, sbagliando, che i soldi si fanno con i soldi. I soldi, quelli veri, si fanno con il lavoro. E’ il lavoro che conferisce la dignità all’uomo non il denaro”. Quindi “La disoccupazione che interessa diversi Paesi europei è la conseguenza di un sistema economico che non è più capace di creare lavoro, perché ha messo al centro un idolo, che si chiama denaro”. “La distribuzione e la partecipazione alla ricchezza prodotta, l’inserimento dell’azienda in un territorio, la responsabilità sociale, il welfare aziendale, la parità di trattamento salariale tra uomo e donna, la coniugazione tra i tempi di lavoro e i tempi di vita, il rispetto dell’ambiente, il riconoscimento dell’importanza dell’uomo rispetto alla macchina e il riconoscimento del giusto salario, la capacità di innovazione, sono elementi importanti che tengono viva la dimensione comunitaria di un’azienda”, spiega Papa Francesco. Che, con queste sottolineature, manda un messaggio chiaro anche all’Italia.
È assolutamente vero – aggiungiamo noi – che una via d’uscita maestra è quella degli investimenti, dell’innovazione, della crescita delle competenze, della qualità e della tecnologia e dell’ammodernamento del Sistema Paese. È altrettanto vero però che la politica è oggi chiamata a dare una risposta all’Italia che non ce la fa, a quei due terzi di connazionali che secondo una recente indagine della Fondazione Hume si sentono mancare il terreno sotto i piedi (perché disoccupati, precari o piccoli artigiani, commercianti e imprenditori che faticano a restare a galla) e non godono della maggiore sicurezza, stabilità e tutele dei dipendenti pubblici o delle grandi imprese private . Sono quelli che poi trasformano il loro disagio in rancore e protesta, danno luogo ai terremoti politici che stiamo vivendo. La risposta disordinata e scomposta al problema è quella trumpista, ma è sbagliata. Iniziare una guerra contro altri Paesi con i dazi finisce per generare una serie di azioni e reazioni alla fine delle quali stiamo tutti peggio.
C’è una strategia più articolata e incisiva, complessa ma possibile, che può mettere d’accordo globalisti e sovranisti. L’ha suggerita un editoriale dell’economista Leonardo Becchetti su“Avvenire”. Eccola riassunta. I dati internazionali sulla parità di potere d’acquisto tra Paesi e le metodologie per il calcolo di salari decenti (quelli che consentono di consumare un paniere di beni essenziali che porta al di sopra della soglia di povertà nazionale) esistono, eccome. È pertanto possibile calcolare il livello di salari decenti Paese per Paese. A questo punto l’Unione Europea potrebbe decidere che prodotti di filiere in cui il lavoro è al di sotto del salario accettabile devono pagare una tassa sui consumi particolarmente elevata. Non si tratterebbe in questo caso di un dazio, perché la regola – costringendo a una vigilanza effettiva ed efficace – si applicherebbe anche ai prodotti nazionali o comunitari che finissero sotto la soglia.
Lo sfruttamento umano – con e senza quello che chiamiamo “’caporalato” – c’à purtroppo ovunque. La corsa al ribasso sul costo del lavoro, che alimenta precarietà e sottoccupazione, è una malattia profonda del sistema produttivo, che spinge in quella direzione grazie alle due forze principali del massimo profitto e del benessere del consumatore con la concorrenza, una volta controbilanciate dal potere contrattuale dei Sindacati. Oggi non è più così perché un sindacato globale che protegge una forza lavoro mondiale con interessi comuni è di là da venire. Ma la politica non può esimersi dall’affrontare alle radici il problema. Con provvedimenti interni mirati e soprattutto cercando soluzioni sul piano internazionale, cercando di dissuadere chi vuole introdurre “barriere di salvataggio”. Non ne esistono in grado di reggere. Solo un approccio globale secondo giustizia può difendere il lavoro anche in Italia. E l’Europa, come dice Papa Francesco, deve tornare a far sognare ed a riaccendere per i giovani la fiaccola della speranza. Deve soprattutto ritrovare un minimo di coesione ed una rotta comune, per rispondere insieme alle paure dei cittadini.