Ignazio di Antiochia e l’unità della Chiesa

I suoi scritti spiccano per il grande valore letterario e per il contenuto teologico denso: soprattutto, essi sono intrecciati saldamente alla sua biografia, come forse non accade in nessun altro padre della Chiesa, fino ad Agostino. Le lettere alle chiese sorelle disperse nelle terre ai margini del grande bacino del Mare Nostrum sono commoventi, il tono è colloquiale e accorato, gli argomenti sono personali. Tutto in questi scritti tende al compimento, che è l’unione nel martirio a Cristo crocifisso: un’acqua interiore e viva zampilla – l’acqua del battesimo che ha segnato per lui e segna per tutti i credenti l’ingresso tra i figli di Dio – e par che gli dica di andare al Padre (cfr. Lettera ai Romani, VII). Il martirio è annunciato da Ignazio, il martirio è da lui previsto, il martirio è da lui desiderato. La pena capitale della consegna alle fiere lo conduce a far propria un’immagine assai eloquente: egli è frumento di Dio, macinato dai denti delle belve, per diventare il pane di Cristo (cfr. Lettera ai Romani, IV).

Non esiste riga dei suoi scritti che non trasudi di riferimenti biografici, tanto che si potrebbe dire che in Ignazio vita e fede – l’insoluto binomio del vissuto ecclesiale e di quello del singolo credente di ogni tempo – sono intimamente uniti, reciprocamente connessi. Più di dieci anni fa una sua frase, un poco modificata, assurse agli onori delle cronache, quando fu usata in un Convegno della Chiesa che è in Italia, da un cardinale arcivescovo giunto alla morte poco tempo fa: «È meglio essere cristiano senza dirlo, che proclamarlo senza esserlo». Una frase lapidaria, chiara, evidente, che ben si adatta alla vicenda biografica di un cristiano e vescovo che rese testimonianza a Cristo nell’effusione della propria stessa vita.

Si tratta di un’unità non astratta o meramente tematizzata, ma vissuta nell’offerta della propria vita di vescovo: una vita offerta per il proprio gregge innanzitutto, certamente, ma anche per l’edificazione dell’unico corpo di Cristo che è la Chiesa, dispersa in ogni dove. L’unità saggiata col fuoco del sacrificio personale e del martirio è l’unità segnata dallo stigma della carità, riflesso dell’amore di Cristo per la sua Chiesa. In altri termini, la testimonianza del sangue è segno di carità verso la di essa, perché non è altro che la carità il vincolo che tiene unita la Chiesa.

Vogliamo in conclusione volgere la nostra attenzione ad un passaggio in cui ci si imbatte in apertura della Lettera ai Romani, da cui anche sopra abbiamo preso alcuni brani. Nella salutatio Ignazio mette in campo tutti gli accorgimenti stilistici richiesti dall’epistolografia antica. Qui si legge che egli scrive alla Chiesa che «che presiede nella terra di Roma, degna di Dio, di venerazione, di lode, di successo, di candore, che presiede alla carità». Queste parole hanno attratto gli studiosi, alla ricerca degli antecedenti del primato petrino nell’antichità. Per quello che qui a noi interessa più semplicemente, Ignazio parla di una “presidenza alla carità” della Chiesa di Roma, probabilmente perché proprio quella è la Chiesa degli apostoli, delle colonne che hanno reso testimonianza a Cristo con il loro martirio. Perché non potrà mai accadere che nella Chiesa la presidenza contraddica alla carità, criterio di unità.