di Stefano Liccioli ▪∙Settembre è il mese in cui riprendono le attività scolastiche, di catechesi ed educative in generale. Penso che per gli educatori (tutti, non solo quelli credenti) non ci sia punto di riferimento migliore di Gesù. In molti passi del Vangelo si legge che “Gesù si mise ad insegnare”. Naturalmente Egli non ci ha lasciato nessuna indicazione specifica su come essere buoni educatori, ma dai Suoi comportamenti, dalle Sue risposte, dalle Sue domande ed in generale da tutta la Sua vita possiamo evincere quale deve essere lo stile di un buon educatore. Prenderò spunto allora da alcuni passi del Vangelo per mostrare a mio avviso le caratteristiche che devono appartenere ad una persona che si occupa di formare le nuove generazioni.
Inizio da quel “venite e vedrete” (Gv 1,39) che Gesù rivolge ad Andrea e Giovanni che si erano messi a seguirlo ed a cui avevano chiesto dove abitasse. La risposta del Signore allude, a mio parere, alla preoccupazione di stabilire una relazione significativa con le persone che si hanno di fronte, un condizione imprescindibile per ogni dinamica educativa. A tal proposito posso citare un’aforisma di Benjamin Franklin (sì, proprio lui, l’inventore del parafulmini). «Dimmi e io dimentico; mostrami e io ricordo, coinvolgimi e io imparo». Le nuove generazioni non hanno bisogno di persone che le riempiano di informazioni, ma che testimonino che le verità professate a parole hanno davvero guidato le loro scelte e le hanno aiutate nel percorso della loro vita. In questo modo ragazzi e ragazze possono essere spronati a mettere a frutto i propri talenti, proponendo loro con coraggio, ma anche con realismo, traguardi possibili. Spesso, infatti, da più parti si chiedono indicazioni su come affrontare in maniera corretta le problematiche di ragazzi e ragazze, dimenticando che il primo passo (e quello più importante) è stabilire con loro una relazione in cui si sentano accolti, ascoltati e sostenuti. È all’interno di questo rapporto che può essere poi promossa la capacità di scelta dei giovani o, per dirla con le parole del prossimo sinodo, il discernimento vocazionale. Su questi aspetti c’è la tentazione della delega agli specialisti, psicologi in primis:«Ci pensino loro, che ne sanno di più», viene da dire. Se per un verso è vero che ci sono persone che hanno competenze particolari nel campo dell’accompagnamento personale ed è bene che ci siano, dall’altro il bisogno di ascolto dei giovani interpella tutti noi adulti, chiedendoci “solo” di spezzare il nostro tempo per loro. Quando questi incontri con gli adulti sono autentici, rimangono scolpiti nel cuore dei giovani. Non è un caso che a distanza di molti anni l’evangelista Giovanni ricordi l’ora di quell’incontro, “erano circa le quattro di pomeriggio” (Gv 1,39).
Altrettanto interessante mi sembra il modo in cui Gesù “interroga” le persone, anche quelle che più hanno peccato. Non usa atti d’accusa, ma le porta a rientrare in se stessi, ad autovalutarsi, a giudicare il proprio comportamento, a capire i propri errori per poter poi ripartire. Allo stesso tempo è bello vedere Gesù che, pur non rinunciando ad indicare la meta, adatta la “propria andatura” a quella delle persone che lo seguono quando vede che esse non tengono il suo passo. Mi viene in mente il dialogo serrato tra Gesù e Pietro (Gv 21,15-19):«Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro? Gli rispose: “Certo, Signore, tu lo sai che io ti voglio bene”». Gesù riformula un’altra volta la domanda e Pietro gli risponde ancora:«Ti voglio bene». Al terzo tentativo Gesù si “accontenta” di chiedere se l’apostolo gli vuole bene e l’apostolo gli risponde “Tu sai che ti voglio bene”. Ecco, Gesù come ogni buon educatore rispetta i tempi di crescita della persona che ha di fronte, è disposto ad adeguarsi ai suoi ritmi. A tal proposito è illuminante ciò che afferma il documento preparatorio alla XV assemblea generale ordinaria del sinodo dei vescovi sul tema “I giovani, la fede ed il discernimento vocazionale”:«Accompagnare i giovani richiede di uscire dai propri schemi preconfezionati, incontrandoli lì dove sono, adeguandosi ai loro tempi e ai loro ritmi; significa anche prenderli sul serio nella loro fatica a decifrare la realtà in cui vivono e a trasformare un annuncio ricevuto in gesti e parole, nello sforzo quotidiano di costruire la propria storia e nella ricerca più o meno consapevole di un senso per le loro vite». Sottolineo questo “incontrare i giovani lì dove sono” che significa accoglierli come sono per aiutarli a diventare così come dovrebbero essere, non pretendendo il contrario e cioé che siano già come dovrebbero essere perché possiamo entrare in rapporto con loro. In tal senso lo sguardo dell’adulto, dell’educatore deve essere un po’ come lo sguardo paziente che Dio ha su ciascuno di noi, un Dio che ci prende con i nostri difetti e le nostre mancanze, ma che vuole tirare fuori da noi il meglio di noi stessi.
Infine il fallimento dell’educatore. Anche Gesù, mi sento di poter dire, non è stato immune dai fallimenti. In alcune circostanze la sua predicazione è stata rifiutata o non capita. Mi viene in mente quando agli apostoli domanda:«Forse volete andarvene anche voi?» (Gv 6,67). La tentazione, tutta umana, è quella di pretendere i risultati immediati, ma in ambito educativo non funziona. L’icona più adatta per rappresentare l’educatore è il seminatore della parabola evangelica, l’uomo che esce e getta il seme in ogni terreno, anche in quello che quasi sicuramente non porterà frutti. Semina con coraggio, determinazione e pazienza, senza pretendere i frutti ed anche con la convinzione che, se anche questi verranno, potrebbe non essere lui a raccoglierli.
Concludo con un’immagine con cui don Lorenzo Milani spiegò il suo stare con i giovani da educatore:«Io sono qui come un contadino. Un contadino non può avere fretta che una pera maturi».