La paradossale prossimità della distanza. È possibile trarre dall’esperienza della pandemia degli stimoli educativi per il futuro?

667 500 Gianni Cioli
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di Gianni Cioli · Nella dolorosa necessità di mantenersi relativamente distanti gli uni dagli altri e di limitare le occasioni di aggregazione per arginare le possibilità di contagio nell’emergenza codiv che ha sconvolto le nostre abitudini, alcuni pensatori hanno ravvisato il rischio dell’esasperazione di una deriva già in atto. Si tratterebbe della deriva individualistica che affligge da tempo la nostra cultura e che potrebbe essere rafforzata dalla distanza forzata gli uni dagli altri che saremo chiamati a mantenere per un tempo ancora difficile da calcolare. L’inopportunità dell’abbraccio e persino della stretta di mano, la necessità di velare il sorriso dietro la mascherina, per non parlare dell’esigenza di mantenersi distanziati da chi si avvicinasse a noi per un’eventuale richiesta di aiuto, potrebbero infatti favorire in noi la paura dell’altro, lasciando così una ferita insanabile cuore della nostra coscienza sociale. L’emergenza covid potrebbe accelerare la tendenza già in atto a concepire la società come una somma di individui condannati a convivere nella paura gli uni degli altri.

L’esasperazione della deriva individualistica nell’accrescersi della disposizione sociale a scorgere nel “prossimo” qualcuno da cui difendersi sistematicamente sarebbe davvero un esito tragico, soprattutto per il futuro delle nuove generazioni.

Il rischio segnalato è probabilmente reale e non va sottovalutato.

A tutto ciò si deve aggiungere la considerazione delle devastanti conseguenze sull’economia e, conseguentemente, sulla vita delle persone che un eccessivo “distanziamento sociale” e una prolungata rarefazione dei contatti fra persone fatalmente pare comportare.

Senza negare la drammaticità della situazione e i suoi rischi, a breve e a lungo termine, vorrei tuttavia prospettare la possibilità di cogliere proprio nella dolorosa necessità della “distanza” che dovremo ancora osservare nelle nostre relazioni sociali non soltanto un pericolo, ma anche l’occasione per un appello etico e un’opportunità educativa per le nuove generazioni.

La distanza da tenere dal prossimo può essere certo vissuta come semplice paura dell’altro; ma può anche essere riconosciuta come attenzione a non contagiare il prossimo e, quindi, a non lasciarsi contagiare per non contagiare. La “distanza” da mantenere si profila così paradossalmente come una forma di prossimità: come un modo concreto di amare il prossimo come se stessi nell’orizzonte del bene comune.

Tale distanza comporta certo una forma di sacrificio personale e interpersonale, nella limitazione dei gesti che normalmente esprimono l’affetto, come l’abbraccio, la stretta di mano e altre forme di contatto fisico; ma questa esperienza potrebbe condurre a comprendere che l’amore, quando non voglia ridursi a un sentimento narcisistico e autoreferenziale, comporta sempre necessariamente un sacrificio, ovvero la rinuncia a una parte di sé per il bene altrui. Non nego che tutto questo possa risultare faticoso, ma la fatica si sopporta bene quando si è motivati e sostenuti dall’amore. Non è un caso che Paolo nelle lettera ai Tessalonicesi faccia appello proprio alla «fatica della (…) carità» (1Ts 1,3).

Certo, quest’amorevole faticosa “distanza” cui la pandemia ci costringe ha bisogno, come tutte le cose umane, di essere calibrata con saggezza, ovvero ha bisogno (e qui emerge un’opportunità etico/educativa dell’esperienza pandemica soprattutto per i giovani) di essere attuata con il criterio del “giusto mezzo” di aristotelica memoria e della corrispettiva etica delle virtù.

L’esasperazione del distanziamento come si è prospettata e potrebbe riprospettarsi nel cosiddetto lockdown risolverebbe forse il rischio di contagio ma comporterebbe il tracollo dell’economia pregiudicando la vita di tanti; la minimizzazione e l’azzeramento del distanziamento faciliterebbe forse la ripresa economica ma porterebbe al tracollo del sistema sanitario, con prevedibili ricadute devastanti sulla stessa economia. Probabilmente, se si fosse continuato a rispettare le regole del distanziamento relativo e ragionevole evitando assembramenti e utilizzando le mascherine, il rischio di nuove chiusure sarebbe adesso minore.

Riassumendo. La tragica esperienza della pandemia che stiamo vivendo può ricordarci che la “passione” per il bene altrui può renderci capaci di accettare ragionevoli e proporzionate limitazioni alla libertà, quella libertà che si rischia di fraintendere e collocare sul piedistallo degli idoli. Ci può inoltre aiutare a riprendere coscienza dell’orizzonte del bene comune, troppo a lungo offuscato a vantaggio d’una esasperata attenzione all’individuo. Può spingerci infine a riconsiderare la necessità di stabilire la giusta misura in tutti i nostri rapporti (con gli altri, con noi stessi, con l’ambiente) di contro a una cultura dell’eccesso, dell’esagerazione, della negazione del limite, che si palesa inadeguata a fronteggiare l’attuale emergenza e, a ben considerare, anche la sfide di un possibile futuro per l’umanità.

Spero che, nonostante la sua drammaticità, possano emergere da questa esperienza degli stimoli educativi positivi per il futuro nostro e soprattutto per il futuro dei nostri giovani e dei nostri bambini.

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