di Francesco Vermigli • Frequentando il mondo universitario e incontrando studenti provenienti da ogni dove, mi è facile avvertire sempre più il desiderio che essi nutrono, di sentirsi dire qualcosa di chiaro sul senso profondo dello studio da loro intrapreso. In effetti, in un mondo liquido, liquide possono essere anche le ragioni per le quali si accede alla vita universitaria, in essa si vive e da essa si esce. In questo contesto, “liquido” significa che si entra all’università per uno scopo – e forse talvolta neanche con uno scopo ben determinato – significa che questo scopo, se c’era in origine, subisce continuamente sollecitazioni contrarie lungo il percorso universitario; infine “liquido” significa che da questo percorso si esce talvolta con altre ragioni rispetto a quelle originarie, se non addirittura si finisce con l’uscire da esso senza alcun obbiettivo definito. Qui si avverte la drammaticità dell’esistenza dei nostri giovani, a cui talvolta si chiedono atteggiamenti (quali decisione, forza di volontà, fedeltà, chiarezza…) che spesso non possono garantire: e questo non perché non vogliano, ma perché nessuno ha mai fornito loro gli strumenti per farlo, li ha incoraggiati a cercarli, li ha accompagnati a trovarli.
Obbiettivo di queste righe non sarà certo offrire la soluzione ad una problematica tanto radicata. Qui proveremo innanzitutto a sollecitare la presa di coscienza del carattere determinante della stagione universitaria. Secondo l’antico paradigma della vita spirituale che il futuro si costruisce sul presente, non pare opportuno solo proiettare nel tempo che verrà le domande dello studente (“quale sbocco lavorativo mi apre questo percorso di studio?”, “potrò realizzarmi?”…), perché se da un lato rilevano un desiderio di pienezza che commuove, dall’altro potrebbero ingenerare ansia e sfiducia; se questo desiderio non viene educato e rafforzato ogni giorno, di fronte alle incertezze e alle fatiche della quotidianità. Uno studente solo proiettato sul futuro finisce con l’essere decentrato rispetto all’oggi in cui è chiamato a vivere la pienezza della propria esistenza. Piuttosto egli dovrebbe chiedersi: “cosa in questo momento della mia vita mi viene richiesto?”, “in cosa consiste oggi il mio bene?”.
Negli ultimi tempi, mi sono capitati tra le mani un paio di libretti che su questo punto hanno qualcosa da dire: essi dovrebbero essere intesi proprio nella dialettica tra il presente e il futuro di uno studente universitario. Mi riferisco a B. Uberti, Come Prometeo. Studiare è un atto di speranza (2013) e a A. Tumminelli, Lo studio. Un esercizio spirituale (2018). In fondo, si tratta di alcuni degli ultimi frutti di una riflessione sulla vocazione allo studio e sulle implicazioni esistenziali di esso, il cui più celebre antenato potrà rintracciarsi in Coscienza universitaria; opera pubblicata nel 1930 dall’allora Montini, quando ricopriva il ruolo di assistente nazionale della FUCI: ne abbiamo parlato in un articolo dell’agosto 2018 (vedi).
Il primo principio della vita universitaria è dunque irrinunciabile, eppure su di esso paiono cadere in molti, come strattonati tra il passato che non c’è più e il futuro che non c’è ancora. E questo è il primo principio: se vuoi il futuro, devi volere ancora prima il presente. Volere il presente universitario significa implicarsi in esso, esprimere in esso la propria responsabilità e la propria costanza. Volere il presente, significa innanzitutto mettere ordine in esso: vale a dire, innanzitutto cercare il bene possibile nell’oggi, senza fantasticare circa un bene futuribile e immaginifico e impossibile. Volere il presente vuol dire pazientare, combattere le tentazioni della rassegnazione e della sfiducia, rilanciare la propria vita di studio nella fedeltà agli impegni presi all’inizio o almeno ricalibrati lungo il percorso. Volere il presente, volere l’oggi della vita universitaria è davvero un’opera dello spirito, che coinvolge tutto il nostro essere; per questo, come nel titolo del nostro scritto, possiamo e dobbiamo dire che lo studio è come un esercizio spirituale.
Con un paio di ultimi spunti vorrei terminare queste righe. Innanzitutto, se lo studio è come un esercizio spirituale, ne consegue che la vita dello studente universitario deve essere sottoposta ad un continuo discernimento: alla sapiente capacità di dare priorità ad alcune cose e di tralasciarne altre, di ascoltare consigli e portare lo studio nella vita e la vita nello studio in un modo equilibrato. Dall’altro lato, se lo intendiamo come un esercizio spirituale, lo studio ha bisogno anche di una guida, che sarà innanzitutto quella dei compagni di studio, che salvano il singolo studente da ogni pericoloso solipsismo intellettualistico. Ma sarà anche la guida sapiente di qualcuno che per esperienza spirituale sia in grado di far capire allo studente le dinamiche della propria coscienza: quella figura paterna che illumina la fatica dello studio alla luce della Parola di Dio e aiuta a distinguere nella complessità delle mozioni dell’anima.