di Francesco Vermigli • Il 4 del mese di novembre diverse ricorrenze convergono: cadono in questo giorno l’anniversario dell’alluvione di Firenze del 1966 e quello della fine della prima guerra mondiale (anniversario che in questo nostro 2018 diventa ricorrenza centenaria). La Chiesa in questo giorno ricorda invece nel proprio calendario liturgico una delle figure più emblematiche di un’intera epoca: un nobile, un principe della Chiesa, un pastore. Perché parlare di Carlo della nobile famiglia dei Borromeo significa in qualche modo – anche solo indirettamente e per transennam – parlare di un’epoca cruciale come nessuna altra nella storia della Chiesa moderna.
Non vogliamo in questa sede tracciare una biografia di colui che le vicende familiari – lui che era nipote di papa Pio IV, per parte di madre – vollero che fosse elevato alla porpora cardinalizia all’età di soli ventidue anni non ancora compiuti (gennaio 1560), prima con il titolo diaconale dei Santi Vito, Modesto e Crescenzia, quindi con il titolo diaconale di San Martino ai Monti; per poi essere nominato – dopo l’ordinazione episcopale (dicembre 1563) e la nomina ad arcivescovo di Milano (maggio 1564) – arciprete della Basilica di Santa Maria Maggiore e assumendo il titolo cardinalizio presbiterale di Santa Prassede. Soprattutto non vogliamo puntare lo sguardo sui primi anni della sua vita clericale romana, che pare tutta convenire in poche centinaia di metri: quelle che dalla sommità dell’Esquilino dove sorge la Basilica Liberiana digrada verso sud-est, fino a giungere a San Giovanni. Quello su cui vorremmo appuntare la nostra attenzione è al modo impareggiabile con cui egli seppe intercettare le disposizioni e finanche lo spirito del concilio di Trento, una volta giunto alla sede episcopale ambrosiana: in modo particolare per quanto attiene alla formazione presbiterale.
Dopo la nomina milanese, entrò in città e in diocesi definitivamente il 15 aprile del 1566; mostrando da subito di avere a cuore l’immediata applicazione in diocesi delle indicazioni tridentine. Circa la formazione del clero, l’istituzione del Seminario rende conto di come venisse percepita la necessità della riforma di quel corpo di collaboratori ed esecutori, da lui inviati in ogni angolo della vastissima diocesi a cui era stato destinato. In una frase redatta ancor prima del suo ingresso definitivo (nel 1565) si condensano in poche parole latine il senso e il fine dell’erezione del Seminario: «Nihil magis necessarium aut salutare videri ad restituendum veterum ecclesiasticorum disciplinam quam seminarii institutionem». È questione decisiva – dice san Carlo – che venga ristabilita l’antica disciplina, che le antiche glorie ecclesiastiche ritornino in auge, che gli antichi esemplari modelli ascetici sian fatti rifiorire: a questo scopo si richiede un luogo e un tempo capace di questo, adatto a tale scopo.
La solerzia di Carlo per la formazione dei futuri preti può apparire del tutto consona all’epoca che egli visse. In fondo, da Trento egli prese innanzitutto il senso di quanto fosse necessario che il clero vivesse una nuova primavera e si ristabilisse una presenza capillare del presbiterio nel territorio diocesano. In una memorabile voce dedicata a Carlo entro il Dizionario Biografico degli Italiani, il De Certeau notava che nella scelta in favore del Seminario il Borromeo aveva lo scopo di assicurarsi, in “spazi esistenziali” controllabili e ben definiti, l’avvenire e non solo il presente delle indicazioni conciliari.
È di due anni fa una nuova Ratio fundamentalis Institutionis Sacerdotalis. È cioè recentissima la redazione di un testo che rende conto di come sia ancora oggi preoccupazione della Chiesa che vi sia un programma, un orizzonte, una prospettiva sempre più adatta alla formazione dei futuri preti. Di quello che è stato il Seminario nella sua accezione tridentina e che ebbe in Carlo il promotore zelante e nella Chiesa ambrosiana uno dei primi e più significativi banchi di prova, probabilmente non resta molto. Questo è certo accaduto e in maniera piuttosto naturale dopo il Vaticano II, ma i primi segnali dell’erosione del modello tridentino sono individuabili nei decenni precedenti all’assise conciliare, in conformità ai cambiamenti del costume e della società. Perché, in fondo, l’istituzione dei Seminari cambia inevitabilmente con il mondo che quella istituzione circonda; e questo non può che accadere anche oggi. Si pensi a cosa possa significare per la permanenza in un luogo che si vorrebbe chiuso, la facilità dell’accesso a fatti e notizie, sollecitazioni e bisogni che provengono dall’esterno di quel medesimo luogo e che vengono moltiplicati e diffusi immediatamente dall’avanzamento della tecnica e della comunicazione digitale.
Al netto di tutto questo, non pare ancora che vi siano elementi sufficienti per poter affermare l’inutilità dell’istituzione seminariale per la Chiesa. La storia infatti può bensì sollecitare che venga modificata la forma di un’istituzione – ecclesiale o meno che sia – senza per questo che giunga fino a istigarne l’abolizione.