Per Giuseppe Capograssi. A 60 anni dalla morte

 

vico_librodi Andrea Drigani • L’espressione «filosofia cristiana» – osservava San Giovanni Paolo II nell’Enciclica «Fides et ratio» – è di per sé legittima, ma non deve essere equivocata: non si intende con essa alludere a una filosofia ufficiale della Chiesa, giacchè la fede non è come tale una filosofia. Con questo appellativo si vuole piuttosto indicare – precisava Papa Wojtyła – un filosofare cristiano, una speculazione filosofica concepita in unione vitale con la fede. Parlando di «filosofia cristiana» – concludeva San Giovanni Paolo II – si intendono tutti quegli importanti sviluppi del pensiero filosofico che non si sarebbero realizzati senza l’apporto, diretto o indiretto, della fede cristiana. In questa prospettiva può essere collocato Giuseppe Capograssi, nato a Sulmona nel 1889 e morto a Roma nel 1956. Capograssi insegnò filosofia del diritto nelle Università di Sassari, Macerata, Padova e infine a Roma. La sua Opera omnia, in 7 volumi, è stata pubblicata nel 1959. Capograssi si richiamava alle considerazioni di Giambattista Vico (1668-1744), nel volere ritrovare la mente umana «nella pienezza della sua natura dentro la vita storica» e non nell’«esangue realtà che è la nuda esistenza del soggetto pensante». Uno dei temi centrali dello studio filosofico-giuridico di Capograssi è stato quello dell’autorità, un argomento sempre antico e sempre nuovo, che concerne il fondamento primordiale della vita dell’individuo e della società. Per Capograssi i rapporti giuridici tra le persone, nei quali trovano il loro perfezionamento, sono sempre nell’ambito di «una legge universale che si pone senza essere posta» Questa legge è la prima autorità che ha la funzione di guidare il diritto nella continua ricerca di giustizia. Nell’individuo – annota Capograssi – vi sono due tendenze contrastanti: «L’insopprimibile tendenza della natura umana di inerire alla verità» e il «perenne impedimento che questa tendenza trova in una oscura rovina che ha disordinato e tolto vigore alle forze sue». In questo contrasto, la volontà, fondata sulla ragione (nell’accezione vichiana auctoritas pars rationis), diviene autorità mediando tra «la legge assoluta e l’immediatezza del concreto», con l’intendimento di «superare il relativo per attingere all’assoluto». Capograssi fu assai critico nei confronti del normativismo di Hans Kelsen (1881-1973) che assumendo una ipotesi di lavoro come l’effettiva realtà delle cose, esaltava la pura norma coercitiva, a prescindere dalla legittimità del potere, col rischio di originare «un diritto naturale alla forza». Capograssi percepì con chiarezza la crisi dello Stato, come si era formato tra le due guerre mondiali, che assorbendo la società sarebbe divenuto tirannico e totalitario. Una crisi che, sotto tutt’altri aspetti, continua a sussistere anche ai nostri giorni, perché la volontà individuale, nel volere solo se stessa, dimentica la totalità di cui fa parte. Come si è già accennato, secondo Capograssi la vita pratica dell’uomo può essere riassunta in un’antinomia: «tendenza della volontà all’Assoluto, insufficienza della volontà a pervenire all’Assoluto», perciò occorre «salvare l’azione e l’esperienza dal male». Il Male, infatti, trasforma il fine particolare in fine assoluto, impedendo all’individuo di scoprire «sperimentalmente che il fine particolare non è tale, in quanto fa parte di tutto un complesso di fini». A 60 anni dalla morte Giuseppe Capograssi, filosofo cristiano, ci ripropone il senso del diritto come ricerca della verità, da studiarsi insieme alla vita e ai bisogni dell’uomo.