Il «Sic et non» di Pietro Abelardo

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di Francesco Vermigli • All’interno del Discorso della montagna, una frase di Gesù colpisce per il carattere perentorio, che non ammette repliche. Siamo all’interno di quella sezione del Vangelo secondo Matteo, in cui Gesù – Lui che è il Legislatore del Regno di Dio – pone se stesso come lo sviluppo e il compimento delle norme dell’Antica Alleanza («avete inteso che fu detto… ma io vi dico…»). Stiamo parlando cioè di quella frase che Gesù pronuncia, in contrasto con l’inutile e vana moltiplicazione dei discorsi e dei giuramenti: «Avete anche inteso che fu detto agli antichi: “Non giurerai il falso, ma adempirai verso il Signore i tuoi giuramenti”. Ma io vi dico: non giurate affatto […] Non giurare neppure per la tua testa, perché non hai il potere di rendere bianco o nero un solo capello. Sia invece il vostro parlare: “Sì, sì”, “No, no”; il di più viene dal Maligno» (Mt 5,33.36-37).
Nella storia della teologia medievale un autore si direbbe abbia impersonato l’invito del Signore a usare parole decise e chiare: Pietro Abelardo (1079-1142). Abbiamo già accennato a lui in questa stessa rivista on-line, nell’articolo del mese di ottobre del 2015 («La polifonia della teologia medievale»): là lo abbiamo considerato come l’esempio di quella nuova teologia che si formava nelle scuole cattedrali francesi all’inizio del XII secolo. La vita di Abelardo è stata segnata da un carattere polemico e reattivo: se dobbiamo credere a ciò che egli stesso dice nell’Historia calamitatum, sarà questa stessa indole a stupire e attrarre le persone, ma anche a procurargli i danni più grandi. Ebbene, si direbbe che il titolo che dette ad una sua opera (il Sic et non) sia il versante letterario della sua biografia di autore dall’intelligenza geniale e spiccata; opera che fin dallo stesso titolo sembra proprio indicare la fedeltà di Abelardo all’invito di Gesù a parlare secondo il sì o secondo il no. Di che opera si tratta? Il Sic et non è un’opera semplice nell’obbiettivo, ma rivoluzionaria in ragione dello stesso obbiettivo che si dà. Abelardo parte dalla constatazione che su molti temi teologici, le opinioni dei grandi rappresentanti della Patristica e della teologia altomedievale sono almeno all’apparenza divergenti. La sua opera ha dunque l’obbiettivo di organizzare quello che riceve dalla tradizione. Un mezzo per raggiungere questo obbiettivo è innanzitutto la sistemazione delle citazioni raccolte in base all’argomento teologico. Si tratta di un materiale vasto: dalle opinioni circa l’atto di fede alle questioni sul Dio Uno e Trino; da alcuni attributi di Dio all’angelologia; dal peccato dei progenitori e dagli effetti prodotti da esso a numerose questioni cristologiche; dalla tematica ecclesiologia ai sacramenti; dal rapporto tra la grazia e il libero arbitrio ad alcune questioni morali. Come ben si vede, il Sic et non potrebbe essere considerato come una delle prime attestazioni della forma letteraria delle Sentenze teologiche, destinata a grande fortuna nella storia. Nell’opera – costituita di 158 quaestiones – solo per fare qualche esempio, ci troviamo davanti alla domanda se i filosofi pagani avessero o meno conoscenza del carattere trinitario di Dio (quod philosophi quoque Trinitatem seu Verbum Dei crediderint et non), a quella sull’umanità di Cristo se ignorasse o meno il giorno del giudizio (quod humanitas Christi ignoraverit diem iudicii et non), a quella che si chiede se coloro che sono risorti con Cristo, siano morti nuovamente oppure no (quod illi qui cum Domino resurrexerunt iterum mortui sunt et non): a ciascun argomento Abelardo appone opinioni favorevoli e opinioni contrarie. Tuttavia, l’intelligenza profonda del magister non si sarebbe mai potuta accontentare di raccogliere il materiale di cui era venuto a conoscenza, e di sistemarlo in quaestiones secondo l’argomento. Abelardo pone in testa alla sua opera un prologo che potremmo definire programmatico. Ciò che stupisce in quelle pagine iniziali è la consapevolezza che dietro alcune citazioni si trovino attribuzioni false a grandi della cristianità o che vi possano essere state delle corruttele nella trascrizione dei brani di codice in codice. Allo stesso modo sorprende il fatto che percepisca come le affermazioni debbano essere contestualizzate in base al genere letterario in cui compaiono. Ma colpisce anche l’attenzione dell’interprete moderno, nel momento in cui rileva come la gran parte dei problemi potrebbe risolversi in base alla constatazione che autori diversi hanno dato significati diversi alle stesse parole. Abelardo non risolve i problemi che pone nel Sic et non: raccoglie il materiale e nel prologo offre i criteri per interpretare la discordanza tra i vari brani. Ma Abelardo non è solo un asettico centonatore di opinioni diverse sul medesimo argomento: quello che nel prologo accenna, sarà sviluppato più ampiamente nelle sue opere teologiche maggiori. Là sarà il luogo in cui si troverà come Abelardo abbia sciolto i problemi, quale delle varie opinioni a favore o contro un determinato argomento abbia fatta propria. Là si apprezzerà, soprattutto, l’originalità delle soluzioni abelardiane ai vari problemi; oltre la mera scelta, cioè, a favore di una linea piuttosto che di un’altra, tra quelle che riceveva dalla tradizione precedente.