«L’uno e l’altro fòro». Il duplice foro giuridico della Chiesa

di Andrea Drigani · Dante nel Canto X del Paradiso incontra, tra gli altri, il monaco Giovanni Graziano, autore di una grande collezione di canoni conciliari e di decretali papali, e dice: «Quell’altro fiammeggiar esce dal riso di Grazian, che l’uno e l’alto fòro aiutò sì che piace in paradiso» (vv.103-105). Alcuni commentatori della Divina Commedia hanno visto il riferimento al foro ecclesiastico e al foro civile, mentre altri in maniera più appropriata hanno inteso il duplice foro della Chiesa, cioè il foro esterno (forum iudici) e il foro interno (forum conscientiae).

La parola forum in latino significa piazza e nel diritto romano, assunse anche il significato di luogo dove si compivano i negozi giuridici e si esercitava la giurisdizione. Pure nel diritto della Chiesa si usò il termine foro per indicare il luogo dei giudizi, ma in due modi, quello pubblico dei tribunali ecclesiastici, e quello segreto inerente il perdono dei peccati. Nel periodo post-tridentino si specificherà meglio la distinzione, nella medesima potestà della Chiesa, tra il foro esterno e il foro interno.

Il Codice latino del 1983 e il Codice orientale del 1990, rispettivamente al can.130 e al can.980, affermano che la potestà ecclesiastica di governo (cioè il potere pubblico della Chiesa di dirigere autoritativamente i fedeli del popolo di Dio verso il fine soprannaturale ad esso proprio, per volontà di Cristo, suo fondatore) può essere esercitata sia nel foro esterno che nel foro interno. La potestas regiminis Ecclesiae è, dunque, unica, ma il suo esercizio avviene in due maniere. Se la potestà è esercitata pubblicamente con la promulgazione di una legge o con un atto giuridico conoscibile dalla comunità, siamo nel foro esterno, mentre se la potestà viene esercitata segretamente e un atto è posto senza fornire prove alla comunità, siamo nel foro interno.

Il foro interno (anticamente denominato, come si è visto, forum conscientiae) si caratterizza per la sua segretezza, ne è prova il can. 1388 § 1 il quale stabilisce che il confessore che viola direttamente il sigillo sacramentale incorre nella scomunica latae sententiae riservata alla Sede Apostolica. Nulla è previsto per le eventuali dichiarazioni pubbliche del penitente sulla personale celebrazione del sacramento della Penitenza. Ritengo, però, che se non si può stricto iure parlare di segretezza da parte del penitente, vi sia almeno riservatezza. Le esternazioni del penitente circa le conclusioni della confessione, infatti, non sono provabili e possono, inoltre, generare confusione e pericolosi equivoci all’interno del popolo di Dio, rischiando di inficiare la distinzione tra foro esterno (pubblico) e foro interno (segreto).

Il verso di Dante, citato all’inizio, rettamente inteso, possiamo leggerlo come un preludio al 2° principio, approvato nel 1967, che ha guidato la redazione del Codex che invitava un coordinamento (coordinatio) tra foro esterno e foro interno, che è proprio della Chiesa e che da secoli ha vigore.