«L’uno e l’altro fòro». Il duplice foro giuridico della Chiesa

313 472 Andrea Drigani
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di Andrea Drigani · Dante nel Canto X del Paradiso incontra, tra gli altri, il monaco Giovanni Graziano, autore di una grande collezione di canoni conciliari e di decretali papali, e dice: «Quell’altro fiammeggiar esce dal riso di Grazian, che l’uno e l’alto fòro aiutò sì che piace in paradiso» (vv.103-105). Alcuni commentatori della Divina Commedia hanno visto il riferimento al foro ecclesiastico e al foro civile, mentre altri in maniera più appropriata hanno inteso il duplice foro della Chiesa, cioè il foro esterno (forum iudici) e il foro interno (forum conscientiae).

La parola forum in latino significa piazza e nel diritto romano, assunse anche il significato di luogo dove si compivano i negozi giuridici e si esercitava la giurisdizione. Pure nel diritto della Chiesa si usò il termine foro per indicare il luogo dei giudizi, ma in due modi, quello pubblico dei tribunali ecclesiastici, e quello segreto inerente il perdono dei peccati. Nel periodo post-tridentino si specificherà meglio la distinzione, nella medesima potestà della Chiesa, tra il foro esterno e il foro interno.

Gli ordinamenti civili non possono accogliere o prendere in considerazione l’esistenza di un foro interno; come potrebbe esserci una piazza, cioè una giurisdizione, segreta, nascosta e sconosciuta? L’antico adagio latino de internis non iudicat praetor, nel diritto canonico deve essere accompagnata dal de internis iudicat Deus. La Chiesa, infatti, è ad un tempo istituzionale e carismatica, visibile e invisibile, terrestre e in possesso dei beni celesti, umana e divina. E’ pertanto, come si suol dire, una societas generis sui. Non può perciò interessarsi soltanto di quello che accade in pubblico, cioè in piazza, ma anche di quello che succede nel segreto dell’anima.

Il Codice latino del 1983 e il Codice orientale del 1990, rispettivamente al can.130 e al can.980, affermano che la potestà ecclesiastica di governo (cioè il potere pubblico della Chiesa di dirigere autoritativamente i fedeli del popolo di Dio verso il fine soprannaturale ad esso proprio, per volontà di Cristo, suo fondatore) può essere esercitata sia nel foro esterno che nel foro interno. La potestas regiminis Ecclesiae è, dunque, unica, ma il suo esercizio avviene in due maniere. Se la potestà è esercitata pubblicamente con la promulgazione di una legge o con un atto giuridico conoscibile dalla comunità, siamo nel foro esterno, mentre se la potestà viene esercitata segretamente e un atto è posto senza fornire prove alla comunità, siamo nel foro interno.

L’eventuale conflitto tra foro esterno e foro interno non è un conflitto tra coscienza e diritto, bensì tra due norme canoniche, delle quale una rimane occulta e quindi ignorata dalla comunità, mentre l’altra è pubblica. Viene in mente la fattispecie illustrata dal cardinale Pietro Gasparri (1852-1934) nel suo trattato De matrimonio, pubblicato nel 1932, e successivamente ripresa da altri canonisti. Il cardinale Gasparri osservava di due coniugi, di cui uno legato ad un precedente matrimonio, nel caso che il primo matrimonio fosse ignorato da tutti coloro che abitavano nel luogo e, certamente a giudizio dell’Ordinario, fosse nullo, i coniugi del secondo matrimonio, in foro interno, non erano da inquietare (non esse inquietandos). E’ possibile la circostanza che un vincolo matrimoniale, ancorchè non dichiarato giudizialmente, sia nullo, e dunque, nel foro interno, il soggetto non è più legato e in presenza di nuovo vincolo potrebbe accostarsi ai sacramenti, tuttavia in una chiesa dove non è assolutamente conosciuto per non creare scandalo; perché se non si è in grado di fornire le prove legittime dell’invalidità del vincolo, non si può pretendere che la comunità riconosca la situazione nascosta e inverificabile del soggetto. D’altronde per la salvezza dell’anima è più importante ricevere la Comunione che farsi vedere di ricevere la Comunione.

Il foro interno (anticamente denominato, come si è visto, forum conscientiae) si caratterizza per la sua segretezza, ne è prova il can. 1388 § 1 il quale stabilisce che il confessore che viola direttamente il sigillo sacramentale incorre nella scomunica latae sententiae riservata alla Sede Apostolica. Nulla è previsto per le eventuali dichiarazioni pubbliche del penitente sulla personale celebrazione del sacramento della Penitenza. Ritengo, però, che se non si può stricto iure parlare di segretezza da parte del penitente, vi sia almeno riservatezza. Le esternazioni del penitente circa le conclusioni della confessione, infatti, non sono provabili e possono, inoltre, generare confusione e pericolosi equivoci all’interno del popolo di Dio, rischiando di inficiare la distinzione tra foro esterno (pubblico) e foro interno (segreto).

Il verso di Dante, citato all’inizio, rettamente inteso, possiamo leggerlo come un preludio al 2° principio, approvato nel 1967, che ha guidato la redazione del Codex che invitava un coordinamento (coordinatio) tra foro esterno e foro interno, che è proprio della Chiesa e che da secoli ha vigore.

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