di Carlo Nardi • 1. Quotidianità cristiana. Uno spunto di riflessione sulla vita ordinaria dei giorni mi viene dalla premessa con cui san Girolamo apre il suo Commento alla breve Lettera di san Paolo a Filemone (Corpus Christianorum Latinorum 77c, pp. 77-80).
Cristiani schizzinosi persino di parole espresse dalle sacre Scritture annoveravano anche la Lettera a Filemone come insulsa. Nel breve scritto s’immaginavano una specie di black out di Spirito Santo. Secondo loro, la Lettera non era di Paolo o, ammessa che la sia, non avrebbe in sé nulla di edificante (Commento, p. 78). Sarebbe stata una lettera di raccomandazioni per una specie di lacchezzo. Così, per esempio, si riteneva insignificante che Paolo avesse chiesto a Timoteo di portargli un mantello da lui dimenticato sbadatamente (2 Tim 4,13). Non solo. In un’altra circostanza, di per sé importantissima, quella di Paolo in polemica con cristiani giudaizzanti intenti a far proseliti in favore della circoncisione secondo loro obbligatoria, anche se già battezzati …, e invece il medesimo apostolo, di molto stizzito, gli scappa da dire: Che si facciano tagliare ogni cosa! (Gal 5,12). E si capisce il che.
Giustamente a Girolamo non va l’idea che nella Bibbia siano testi meno ispirati di altri. Non è punto d’accordo. Anzi, proprio a partire dalla sacra Pagina e in sua compagnia, il furente Padre della Chiesa entra a parlare della nostra vita, tutta ordinaria, da mane a sera: le nostre faccende e commissioni, il mangiare e il bere, e vestir panni (cf. Dante, Inferno xxxiii,141) e così via: anche, e meno male, l’espletare i bisogni corporali. O che lo Spirito Santo in certi frangenti dovrebbe svolazzar via? Perché lo dovrebbe, quando non c’è nulla di male? Tutto è per nostra vita, tutto per grazia di Dio, sembra dire il dotto padre Girolamo.
Il quale va oltre questi pensieri. Da teologo mette in guardia da ragionamenti strampalati. Per esempio, di chi introduce separazioni nella Bibbia, nonché nei nostri convincimenti, come se ci fosse un Dio che ha creato i cieli e un altro, di basso ceto (effetti della la sora Alvara del Grillo canterino?), tutto dedito a crear bachi e formiche. C’era chi pensavano così, i cosiddetti marcioniti nei primi secoli. Per dirla in breve: come se non ci fosse un unico Dio; come se non ci fosse un’unica rivelazione, e non fosse unica questa nostra vita vissuta da vivere in grazia di Dio.
Girolamo nella gustosa introduzione al Commento alla letterina di san Paolo è all’insegna della concretezza cristiana. Perché non dovrebbe averla scritta san Paolo? E soprattutto: perché non dovrebbe essere ispirata da Dio? Anzi, contro il dualismo e separatismo dell’eresia marcionita e in genere gnostica – grosso modo con un Dio e un altro, ciascuno per conto suo -, insegna ed offre un unico Creatore dei cieli come dei vermi, e rivendica la dignità delle nostre cose di tutti i giorni, come la nobiltà del linguaggio quotidiano (sermo cotidianus): le parole giorno per giorno, come avrebbe detto Girolamo.
Egli, nel commentare il biglietto che parla di problemi “servili”, afferma il valore di una ordinaria amministrazione della vita; dà una lezione di umiltà e, più a monte, illustra la creazione della materia e, di conseguenza, dell’incarnazione: implicitamente, ma senza alcun dubbio ciò che interessa a Dio. Insomma, tutto, anche l’andar di corpo, in qualche modo riguarda una vita cristianamente vissuta. E di nuovo, non senza un perché queste cose, che si direbbero cosucce, sono nella sacra Scrittura.
2. In merito alla questione. E così Girolamo entra in argomento, che è in un discreto ginepraio. Secondo lui, la Lettera fu scritta da Paolo in prigione a Roma. Ancora, per lui, Onesimo non era tutt’altro che uno stinco di santo. Era uno schiavo che si è svignato dal padrone, un servus fugitivus ben noto, legalmente inquietante. Ci sarebbero stati anche soldi rubati da lui per la casa per rimediare il suo stendere e spandere. Scialacquatore per luxuriam, aveva voluto godersi la vita tra donne, donne eterni dei (cf. Fr. Lehár, La vedova allegra, traduzione di F. Fontana, Atto 2) ?! Morale della favola. Un gruzzolo perspicuo “sputtanato” (capp. 8-9.18: pp. 94.99), come i quattrini del figliol prodigo per tradurre san Luca sinteticamente con un solo participio toscano e pertanto italiano (Lc 15,30. cf. 13). E quando il soggetto è alla disperazione, va da Paolo apostolo.
Come si vede, per Girolamo, in Onesimo c’è del birbo matricolato. Dall’Asia Minore, dov’era il padrone, era andato addirittura in Italia. Girolamo estende in merito allo schiavo non solo il danno subito da Filemone dal sottrarsi di Onesimo ai suoi doverosi servizi, ma anchor più il furto. Ma Paolo lo catechizza e lo battezza: aveva fatto penitenza e Paolo intercede per lui.
Girolamo mette in evidenza peccati e reati (delicta) di un Onesimo per far risaltare gli effetti della grazia in Paolo e in Onesimo, penitente e convertito. Il tutto non sarebbe stata una cosa seria, se il birbone avesse potuto rientrare mediante di nascondimenti, ritrovamenti e raccomandazioni, abbastanza diffusi e in qualche modo tollerabili. Un po’ come la fuga l’amore architettata per costringere a nozze. Per Girolamo, comunque, c’era stata materia penale.
E Filemone? Dovette far penitenza anche lui? Con finezza Girolamo presenta Paolo nel convertire il padrone. A quanto pare, ne aveva ha bisogno. Il Padre della Chiesa nello stesso Commento fa riferimento ad altre lettere paoline, quella Agli Efesini e Ai Colossesi. Specialmente in quest’ultima Paolo parla del dovere dei padroni con obbligo di dare agli schiavi «quello che è giusto ed equo» (Col 4,1). Dunque: per l’apostolo c’è una giustizia morale, relazionale e sociale. Lo schiavo ha diritto ad avere quel che gli spetta, e pertanto risulta soggetto e titolare di diritti. E se è tale, è ancora schiavo? La giustizia come virtù (iustitia) pare tradursi in diritto (ius). L’etica tende al giure, anche se nella schiavitù c’è voluto molto tempo e di fatto ce ne vorrà. Intanto, non solo la Lettera dell’apostolo, ma anche il relativo Commento di Girolamo edifica, e lentamente “costruisce” anche il lettore (capp. 8-19: pp. 94-99).