di Andrea Drigani • Il passaggio dalla norma all’azione, sovente si può presentare complesso, proprio in ordine all’interpretazione e all’applicazione della norma stessa in presenza di circostanze concrete. Da qui il compito del giudice, civile o ecclesiastico, di sciogliere i contrasti interpretando e applicando la norma che, nel suo vero senso, si mostri adatta alla fattispecie. Per questo si dice che il giudice interpreta la legge «per modum sententiae», cioè che dichiara il senso genuino della legge per il caso sottoposto al suo esame. Appare dunque evidente che la funzione del giudice, in qualsiasi ordinamento giuridico, compreso quello della Chiesa, è insopprimibile e viene denominata giurisdizione, dal latino «iurisdictio», cioè dire il diritto, di qui l’etimologia: «iudex a iure dicendo». Possiamo altresì osservare che, secondo la dottrina cattolica, nel sacramento della penitenza, l’assoluzione del sacerdote è un atto giudiziale (Conc. Trid. Sess. XIV, c.9). Proprio su un aspetto qualificante del servizio del giudice ecclesiastico si è soffermato Papa Francesco, il 29 gennaio 2018, nel consueto Discorso al Tribunale della Rota Romana. L’Allocuzione ha riguardato la centralità della coscienza che è, nello stesso tempo, quella di ciascun giudice e quella delle persone dei cui casi i giudici si occupano. L’attività del giudice ecclesiastico – ha osservato il Papa – si esprime pure come ministero della pace delle coscienze e richiede di essere esercitata in tutta coscienza, come si esprimono pure le sentenze rotali emanate «ad consulendum conscientiae» o «ut consulatur conscientiae». Nell’esercizio del suo ruolo – ha continuato – il giudice è chiamato ad invocare incessantemente l’assistenza divina per espletare con umiltà e misura il grave compito affidato, manifestando così la connessione tra la certezza morale, che il giudice deve raggiungere con le prove, e l’ambito della sua coscienza, noto unicamente allo Spirito Santo e da Lui assistito. Grazie alla luce dello Spirito è dato ai giudici di entrare nell’ambito sacro della coscienza dei fedeli. Da queste considerazioni riemerge l’assoluta necessità della cura e della formazione delle coscienze, che non può essere impegno esclusivo dei Pastori, ma con responsabilità, e modalità, diverse è missione di tutti, ministri e fedeli battezzati. Il Catechismo della Chiesa Cattolica al n.1784 afferma: «L’educazione della coscienza è un compito di tutta la vita. Fin dai primi anni essa dischiude al bambino la conoscenza e la pratica della legge interiore, riconosciuta dalla coscienza morale. Un’educazione prudente insegna la virtù; preserva o guarisce dalla paura, dall’egoismo e dall’orgoglio, dai sensi di colpa e dai moti di compiacenza, che nascono dalla debolezza e dagli sbagli umani. L’educazione della coscienza garantisce la libertà e genera la pace del cuore». La coscienza cristiana si deve formare alla luce della Rivelazione: cioè della Sacra Scrittura, della Tradizione e del Magistero. La coscienza non riguarda soltanto le norme in generale, ma le applicazioni concrete delle norme stesse. Scriveva San Tommaso d’Aquino: «nomen conscientiae significat applicationem scientiae ad aliquid: unde conscire dicitur quasi simul scire» («il nome coscienza significa applicazione della scienza a qualcosa: per cui essere coscienti è quasi come conoscere») Per il Dottore Angelico la conoscenza dottrinale, esperienziale, storica, appare come il presupposto per la sussistenza di una retta coscienza. Se queste annotazioni valgono per tutti i fedeli cristiani, a maggior ragione lo sono per i giudici ecclesiastici e anche per i confessori, visto che per il Concilio Tridentino sono assimilati ai giudici. Il Papa nella sua Allocuzione ai Prelati Uditori della Rota Romana ha, in conclusione, ribadito quanto è preziosa e urgente l’azione della Chiesa per il recupero, la salvaguardia, la custodia di una coscienza cristiana nel popolo di Dio.