Crisi della vocazione come crisi della relazione. Riflessioni su aspetti antropologici e teologici della sessualità

di Gianni Cioli · Quando si parla di crisi della vocazione, si pensa ai seminari e ai conventi vuoti e ci si interroga per lo più sulla pastorale vocazionale, su come rinnovarla o rifondarla. A mio avviso il problema sta più a monte: quello che è in crisi e la percezione della vocazione umana e cristiana. Detto altrimenti è in crisi la percezione della vita come dono, compito, responsabilità e missione.

(Ef 5, 21-33). Dalla considerazione che il vero paradigma della sponsalità feconda è Cristo, l’antropologia Cristiana ha derivato la convinzione che la verginità per il regno dei cieli non è necessariamente frustrazione della potenzialità relazionale insita nella sessualità dell’essere umano, bensì ampliamento della libertà d’amare, in una prospettiva ideale, che non sempre si realizza ma a cui è possibile e auspicabile tendere. Quindi l’istituto del celibato dei sacerdoti nella Chiesa latina, come ci ha ricordato Giovanni Paolo II nella Pastores dabo vobis (nn. 29.50), deve essere ricondotto in ultima analisi alla verginità per il regno e deve essere prospettato non come un ostacolo al dono e alla fecondità e quindi alla gioia radicata nell’autenticità delle relazioni vissute, bensì come un’opportunità di donarsi liberamente per servire il Vangelo.

La condizione sessuata dell’essere umano è espressione e funzione del suo essere per la relazione. Questo essere per la relazione può realizzarsi attraverso la gioia e la fecondità dell’esercizio della sessualità vissuto nella vita di coppia, come pure nel celibato vissuto come verginità per il regno. Tuttavia dobbiamo essere avvertiti che sia l’esercizio della genitalità che l’astensione da tale esercizio possono anche celare, al di là delle apparenze, forme di elusione dell’amore, ovvero strategie di fuga dalla relazione.