La storia della «reformatio ecclesiae»
di Alessandro Clemenzia • «C’è appena bisogno di sottolineare che il verbo reformare nel latino classico ha due accezioni fondamentali: “tornare a una forma primitiva”, oppure “rendere migliore”» (p. 1). Con queste parole si avvia l’interessante itinerario di Emidio Campi, docente emerito di Storia della Chiesa, intitolato Riformare la Chiesa. Storia di un’idea (EDB 2019). Si tratta di un saggio ampliato di una lezione tenuta a Roma nella Sala della Protomoteca in Campidoglio, in occasione del quinto centenario dell’affissione delle 95 tesi di Lutero e dell’avvio della Riforma in Europa (2017).
L’autore ripercorre la storia dell’assai citata locuzione reformatio ecclesiae, già presente negli scritti di Agostino d’Ippona, e che trova in particolare nel movimento monastico la sua introduzione più rilevante in Europa: si puntava soprattutto a un ritorno alla purezza della Chiesa primitiva, e dunque alla sua forma originaria.
In un secondo momento vengono approfondite le caratteristiche che via via ha assunto questa reformatio, in particolare nel pensiero dei riformatori del XVI secolo: «Al centro della reformatio non vi è il miglioramento istituzionale o di costume, bensì la paradossale decisione di fede di impostare tutti i problemi, non solo quelli teologici, ma anche quelli istituzionali o morali nella prospettiva della Parola evangelica» (p. 27). È nella parola di Dio, dunque, che la Chiesa può essere purificata da ogni forma di fanatismo.
Nel terzo momento viene introdotto l’aforisma Ecclesia semper reformanda, attribuito erroneamente ad Agostino o a Lutero o a Calvino, che trova invece la sua nascita nel movimento di stampo pietistico delle Chiese riformate olandesi, e fu utilizzata per la prima volta dal Pastore Jodocus van Lodenstein (1620-1677): «in vero, anche nella Chiesa riformata c’è sempre molto da riformare» (Beschouwinge van Sion, 1674).
Nel quarto momento, l’attenzione viene rivolta in particolare al grande contributo di Karl Barth, il quale è stato il primo teologo del Novecento ad aver rimesso in circolazione la locuzione, quando nel 1953, nella sua Kirchliche Dogmatik, ha scritto: «Ciò che conta nella Chiesa non è il progresso ma la Riforma: la sua esistenza come ecclesia semper reformanda» (pp. 786-787). E ancora: «Semper reformari tuttavia non significa andare al passo dei tempi, […] bensì interrogarsi in ogni tempo e in contrasto con lo spirito del tempo sulla essenza immutabile della Chiesa» (ibid., p. 787). L’infinito passivo reformari dice chiaramente che l’azione formatrice della Chiesa non è frutto di uno sforzo umano volto a cambiare una situazione attuale, ma è la capacità insita nell’uomo di lasciarsi riformare costantemente dalla Parola di Dio.
In ambito cattolico un grande passo in avanti per l’autocoscienza della Chiesa di vivere questa reformatio è stato compiuto dal Concilio Vaticano II. Yves Congar, nella sua opera Vraie et fausse réforme dans l’Église (1950), ha offerto un importante contributo al decreto conciliare sull’ecumenismo Unitatis redintegratio, nel quale si legge: «Siccome ogni rinnovamento della Chiesa consiste essenzialmente in una fedeltà più grande alla sua vocazione, esso è senza dubbio la ragione del movimento verso l’unità. La Chiesa peregrinante è chiamata da Cristo a questa continua riforma (perennis reformatio) di cui, in quanto istituzione umana e terrena, ha sempre bisogno (perpetuo indiget)» (UR 6).
Il fine della perennis reformatio, dunque, non è inteso come un semplice “ritorno” dei fratelli separati alla Chiesa Romana, ma è lo strumento necessario per ritrovare quella cattolicità a cui tutte le Chiese aspirano. In questo senso la riforma continua della Chiesa viene colta come un’esigenza che appartiene alla natura di ogni Chiesa cristiana, come si può constatare anche a partire dalla costituzione dell’Alleanza mondiale delle Chiese riformate (1970): «Ogni Chiesa che accetta Gesù Cristo come suo Signore e Salvatore e riconosce la Sacra Scrittura dell’Antico e del Nuovo Testamento come l’autorità suprema in materia di fede e vita, nonché la necessità di una continua riforma (continuing Reformation) della Chiesa cattolica […] può essere membro della Alleanza» (art. 2, citato p. 53).
Questo saggio di Emidio Campi offre, così, un interessante percorso della storia della reformatio ecclesiae, e mostra come ciò che caratterizza la natura dell’autocoscienza della Chiesa cattolica è ciò che più accomuna il cammino di ogni Chiesa cristiana.