di Carlo Nardi • Che cosa voglia dire “Occhio per occhio, dente per dente” si capisce facilmente. Si sa anche che è nel Vecchio Testamento e che nostro Signore in questa faccenda ha dato una bella sterzata. Meno male, almeno finché cose di questo tipo sono lontane da noi. E d’altra parte la tremenda parola della giustizia di allora non aveva restituito né occhi né denti ad alcuno. Ma quella svolta è difficile, molto difficile da seguire e da mettere in pratica da vivere sempre e comunque, come dice Gesù nel Discorso della montagna in Vangelo secondo Matteo, al punto che si sarebbe tentati di dire: troppo difficile.
A questo proposito ecco alcune mie reazioni a caldo, ma anche confrontandomi con altri pensieri. Mi piacciono le parole del papa Giovanni Paolo II che in merito all’“occhio per occhio, dente per dente” parlava di “corruzione della giustizia” (Enciclica “Dives in misericordia” 30 nov. 1980, 12: Enchiridion Vaticanum 7, n. 926 pp. 850-852). Sono parole, anche assunte dalla Dei Verbum (c. 15) del Concilio Vaticano II che parlava di “cose imperfette”, eppure come se si trattasse di una giustizia sciupata e quindi non più giustizia. Di conseguenza sono parole ardite perché paiano relativizzare l’intento del legislatore che, prendendo la Bibbia così come suona, risulta proprio il Padreterno. Invece, se l’“occhio per occhio” si tratta di un fraintendimento della vera giustizia. Quella vendetta limitata e contenuta a norma di legge se l’è levata dalla mente Mosè o chi per lui? E Dio per il momento avrebbe lasciato fare “il popolo di dura cervice”, come spesso si dice nella sacre Pagine? Questa ipotesi è certamente liberante perché allontana l’impressione che nella Bibbia tutto quello sembra attribuito a Dio sia, senza ombra di dubbio, espressione della sua volontà, come se la Scrittura fosse una legge uscita fresca fresca nella Gazzetta ufficiale. La Bibbia però è parola viva che non si può ingabbiare, almeno non più di tanto, e in modo difficile da stabilire.
Andando tra il quarto e il quinto secolo, mi piace una riflessione di san Giovanni Crisostomo in una sua predica sul Vangelo secondo Matteo (Omelia 18,1) su questi punti. Giovanni ha il senso della storia. In parole povere: ci sono tempi e tempi. E parla di una “potenza” (dynamis), di Dio certo, ma anche da intendere come “il significato dei tempi (kairôn)”, “di tempi con le loro congiunture, situazioni, problemi e particolarità”. Insomma “tempi”, non scanditi dal ticchettio dell’orologio, ma da mentalità ed esperienze, sulle quali, Bibbia compresa, scende la “condiscendenza” di Dio che parla linguaggi umani, perché Dio si è fatto uno di noi. Così, spesso e volentieri, argomenta il Crisostomo in modo appassionato per la salvezza dell’uomo.
E tutta questa “condiscendenza” divina riguardava sia il popolo ebraico che noi cristiani.
Mi fa dir questo un pensiero dell’antichissima Didaché, un libretto scritto tra I e II secolo. Il testo invita i cristiani alla speranza che riconoscono di non far pari nell’obbedire ai comandamenti di Dio. Eppure la speranza in Lui non fa demordere nell’impegno cristiano, anzi ci dona gioia e fortezza.
Sono preziose le parole del Signore che smascherano molteplici false giustizie umane inacidite nel risentimento, nel calcolo al ribasso del lecito e dell’illecito, nella ricerca di puntelli a nostre autoassoluzioni. È preziosa pertanto la “condiscendenza” di Dio che “sa di che pasta siam fatti” (un Salmo): di Dio che conosce i nostri tempi umani di peccato e di grazia.
E sono preziosi i suoi precetti, di fatto vissuti, che ci aprano il cuore fino al limite dell’impossibile: “amate i vostri nemici, fate loro del bene, pregate per loro” per una boccata l’aria per noi facilmente astiosi, eppur capaci delle parole di Gesù, per noi dono e grazia.