di Carlo Nardi • Diciamolo pure. Essere paragonati a ‘pecore’ non è proprio entusiasmante, e non doveva molto piacere neppure ai primi scrittori cristiani di lingua greca. Difatti persino alle ‘pecore’ guidate da Gesù, buon pastore nel Vangelo secondo Giovanni (cap. 10), aggiungevano spesso e volentieri l’aggettivo ‘razionali’, ‘logiche’, perché dotate di logos, il lume della ragione. Tanto per precisare. Non per nulla erano greci, come l’antico Ulisse “dal multiforme ingegno”. Erano i greci che, verso il sesto secolo a. C., avevano ‘inventato’ la filosofia, che sarebbe anche l’arte di ben ragionare.
Per esempio, tra gli stessi Padri greci Gregorio di Nazianzo deveva avere buone chances per convincere gli apollinaristi che smarronavano nel loro negare in Cristo un intelletto umano. Gregorio obiettava loro di immaginarsi un Cristo senza senno, ossia … un Cristo ‘dissennato’. Il che per un cristiano greco voleva dire un cascar nel ridicolo, oltre a dire un’eresia o comunque un’assurdità difficilmente digeribile, quella di un’una bestemmiaccia ‘bella e buona’.
Certo, come in Israele – penso ad Ezechiele -, così anche in Grecia i capi, come quelli della spedizione a Troia, erano chiamati “pastori di popoli”. I quali però sotto le mura di Troia non ci fanno una gran bella figura, tant’è che l’“ira di Achille”, preceduta e seguita da un’“Iliade di mali”, fa dire ad Orazio un’altra frase passata in proverbio: “Quante di re le mattane, / tante mazzate agli achei” (Quicquid delirant reges, plectuntur Achivi).
C’è però tra gli ebrei una linea che traspira tenerezza: quella presente nella parabola del pover’uomo, possessore d’una sola pecorella, che finisce sulla tavola a un ricco tirchio. È una cogente parabola del profeta Natan, la quale funge da una specie di trappola per smascherare il re (qui lasciamo stare “il santo” …) Davide che, non pago del suo harem, va a pigliarsi la moglie del fedelissimo Uria, becco e bastonato. E come bastonato! Insomma l’Antico Testamento, proprio tra questi fattacci, conosce tratti di tenerezza pastorale.
C’è poi da pensare che Giovanni scrive il suo Vangelo ad Efeso, nella cosiddetta Grecia d’Asia, dove si conosceva bene la poesia pastorale che mirava a trasfigurare e ingentilire il mondo ‘selvatico’ dei pastori (Polifemo) ai confini del viver civile, con il furente Pan. Inoltre in quei paraggi, tra primo e secondo secolo, si diffonde il romanzo pastorale. Mi vengono in mente, tra le molte storie, le Avventure dei pastorelli Dafni e Cloe innamorati, opera di Longo Sofista.
Forse, proprio sulla scia del romanzo, anche san Giovanni al cap. 10 del suo Vangelo s’è lasciato prendere la mano dal gusto del narrare ed ha trasformato il flash costituito dalla parabola della pecorella smarrita di Matteo e di Luca in un racconto simbolico che doveva andare a genio agli Efesini, i quali si crogliolavano a sentir parlar d’amore. Così, letterariamente, Gesù diventa il “pastore bello e buono” (ho kalós) e le ‘pecore’ mostrano che proprio pecore non sono perché, giuggiolone eppur giudiziose, esercitano un discernimento riguardo a quale amore e a quale Amante dar retta. Pecore ‘razionali’ dunque, come siamo noi. O come si dovrebbe essere.