di Francesco Vermigli • Nel giorno dell’Annunciazione del Signore, Milano ha accolto papa Francesco, giunto per una visita intensissima alla diocesi ambrosiana. L’incontro con alcune famiglie nel quartiere periferico delle Case Bianche, il colloquio con i preti, i religiosi e le religiose nel Duomo, la visita al carcere di San Vittore, la messa nel parco di Monza e infine l’incontro con i cresimandi stipati sulle gradinate di quella che gli appassionati del gioco del pallone, chiamano la “Scala del calcio”: nello spazio di poche ore Francesco ha potuto conoscere una realtà ecclesiale particolare nel panorama della Chiesa italiana; ha toccato con mano il tratto singolare di un cattolicesimo tanto radicato nella tradizione dei santi Ambrogio e Carlo, quanto connotato da un profilo fattivo e solidale.
Ma qui vogliamo soffermarci su alcune parole che il papa ha detto nel colloquio con i preti, i religiosi e le religiose nella Cattedrale di Milano. In modo particolare, ci piace rilevare come in un paio di risposte che ha offerto ai presenti, si nasconda un modo di pensare la Chiesa, i cui segnali sono dispersi nel suo stesso pontificato. Ad un diacono permanente che chiede quale sia il posto nella Chiesa per coloro che accedono al diaconato, il papa risponde, mettendo in guardia i diaconi dal polarizzare la loro vocazione: né solo servizio per i poveri, né solo liturgia, ma e servizio e liturgia; né solo famiglia, né solo partecipazione ecclesiale, ma e famiglia e Chiesa. È soprattutto in una delle risposte che offre ad un prete ambrosiano, che il papa dà profondità a quello che va dicendo.
Francesco prende spunto da una domanda che si chiede come sia possibile rinnovare la fede in una società multiculturale e multietnica. Invita a guardare con fiducia alla realtà odierna – come comunità credente che si fa avanti nelle sfide di oggi, senza rassegnazione e lamentele – e rileva come la storia della Chiesa insegni che il tratto essenziale della stessa Chiesa è proprio la pluralità nell’unità. Perché avvenga questo equilibrio, perché nella Chiesa vi sia e unità e pluralità, si richiede che vi sia l’intervento dello Spirito: del Maestro, cioè, di questo equilibrio; l’intervento di Colui che è ad un tempo Maestro e dell’unità e della pluralità. La Chiesa non dovrà essere né lacerata da un pluralismo frammentato, né omologata in una falsa idea di uniformità: si richiede che la Chiesa sia e una e plurale; per opera di Colui che nella vita intima di Dio stringe in unità la pluralità delle persone divine.
Ci piace notare come queste affermazioni abbiano in più occasioni trovato concreta realizzazione nel pontificato di Francesco. Sono segnali dispersi, ma coerenti, che intrecciano quasi un tessuto, nascosto nelle pieghe del suo pontificato. Vi è un caso emblematico, che in primo luogo ha il vantaggio di condurre a smentita immagini vulgate e superficiali della sua azione di governo della Chiesa; ma che, soprattutto – al di sotto dell’ars operandi che il pontefice mette in pratica in quest’ambito – fa intravedere anche l’idea di Chiesa che muove la sua azione.
Mi riferisco al caso davvero paradigmatico degli sviluppi attorno allo scisma lefebvriano. Come noto in due occasioni, negli ultimi tempi il pontefice ha compiuto passi significativi nei confronti della Fraternità San Pio X: il primo, nell’atto di indire il Giubileo della Misericordia – passo confermato, donec aliter provideatur, nella Lettera apostolica Misericordia et misera, a conclusione dello stesso Giubileo – dichiarando valida e lecita l’assoluzione nelle confessioni amministrate dai sacerdoti appartenenti alla Fraternità; il secondo passo, approvando la Lettera che la Commissione Ecclesia Dei ha inviato il 27 marzo 2017 a tutti i vescovi del mondo, a proposito della possibilità di concedere la licenza di matrimonio per i fedeli legati alla Fraternità. Leggere le ragioni che le due lettere introducono per giustificare questi passi, significa scorgere qualcosa di quel modo di pensare la Chiesa che sta alla base dell’azione di questo pontefice. Togliere ogni impedimento alla riconciliazione del peccatore con Dio, liberare i cuori delle persone dall’inquietudine circa la validità dei sacramenti, rasserenare la coscienza dei fedeli: queste sono le parole più ricorrenti.
Ma ci domandiamo se non sia ancora più in radice un altro ancora il motivo che muove papa Francesco in questo, come in altri ambiti della sua azione pastorale. Ci chiediamo se alla base di tutto non stia quello che vien detto il “presupposto favorevole”; quell’atteggiamento del cuore, cioè, di ispirazione ignaziana che è siglata nella frase: “presupporre che ogni buon cristiano dev’essere più pronto a salvare un’affermazione del prossimo che a condannarla” (Esercizi spirituali, 22). In fin dei conti, non è proprio questo principio, questo presupposto favorevole, questo atteggiamento del cuore che cerca il bene nell’altro, piuttosto che attaccarsi all’errore; non è, diciamo, tutto questo alla base di una Chiesa che è pensata secondo la formula dell’«et… et»?