di Francesco Romano • Quest’anno si contano cento anni dalla promulgazione del primo Codice di Diritto Canonico avvenuta con la costituzione apostolica di Benedetto XV Providentissima Mater Ecclesia il 27 maggio 1917, che ne stabilisce l’entrata vigore per l’anno successivo il 19 maggio 1918.
Il percorso di questa prima codificazione è stato lungo e travagliato perché la sua ispirazione non proviene dalla tradizione canonica, ma si inserisce nel solco delle codificazioni statuali secondo i principi espressi dal giusnaturalismo che cominciarono a prendere forma concreta già alla fine del XVIII secolo con l’esigenza razionalistica di dare fondamenti di unità e stabilità al diritto che regola il rapporto diretto tra Stato e cittadini.
Il progredire del processo di codificazione vede perdere terreno rispetto ai principi di razionalità, rafforzandosi invece sulla linea del volontarismo statuale e della certezza del diritto come comando del legislatore, fonte di produzione giuridica, che colloca nel Codice tutto l’ordinamento giuridico positivo dove qualunque caso possa trovare la norma corrispettiva che lo regola come riflesso della sua volontà. La statalizzazione del diritto porta il sovrano dell’età moderna a incrementare la sua funzione legislativa come strumento di controllo e di comando rendendo ogni altra forma del diritto fonte gerarchica inferiore rispetto alla legge da lui emanata fino a vanificare l’intermediazione tra Stato e cittadini operata da altre fonti giuridiche intermedie come le consuetudini, gli statuti delle corporazioni, il pronunciamento dei giudici o dei giureconsulti ecc.
Su questa linea il processo di codificazione inizia a muovere i primi passi con il Codice prussiano del 1794, il “Code civil” napoleonico del 1804, il Codice austriaco del 1811, il Codice civile italiano del 1865, il Codice tedesco del 1900 e quello svizzero del 1907.
La nuova concezione codicocentrica del diritto finisce per assorbire e trasformare il razionalismo giusnaturalista nel volontarismo statuale in cui la volontà del legislatore mortifica in larga misura la scienza giuridica nella dimensione creativa che si esprime nell’esegesi e nell’interpretazione.
La Riforma Gregoriana era stata all’origine di una complessa produzione legislativa nella forma di decisioni prese dai concili e di decretali dei pontefici. L’esigenza di dare sistemazione, chiarezza e ordine nella reperibilità del materiale da consultare fu decisiva nel processo di formazione delle collezioni giuridiche.
Da questo punto di vista l’immane esperienza giuridica della Chiesa del primo millennio confluisce nell’opera di Graziano dal titolo Concordia discordantium canonum, detta anche Decretum Gratiani, situata intorno al 1140. Seguiranno tre collezioni ufficiali per disposizione e approvazione pontificia, il Liber decretalium di Gregorio IX (1234), il Liber sextus di Bonifacio VIII (1298) e le Clementine di Clemente V pubblicate da Giovanni XXII (1317). Il Concilio di Basilea (1431-1438) raccolse insieme queste tre collezioni introducendo il termine Corpus Iuris Canonici che richiamava il Corpus Iuris Civilis di Giustiniano. Nel 1500 Jean Chappuis aggiunse alla sua edizione del Corpus Iuris Canonici le Extravagantes Joannis XXII e le Extravagantes communes. Il Papa Pio V nel 1566 istituì una congregatio di correctores romani per preparare una nuova edizione accurata e ufficiale delle raccolte più importanti anteriori al concilio di Trento. L’Editio Romana del 1582 viene pubblicata da Papa Gregorio XIII con le Bolle Cum pro munere del 1° luglio 1580 ed Emendationem decretorum del 2 giugno 1582 divenendo fonte principale del diritto canonico fino al 1917 insieme alla vasta produzione legislativa, sorta tra l’anno 440 e il 1758, raccolta nel Magnum Bullarium Romanum in 32 volumi, oltre agli Acta dei Papi Gregorio IX, Leone XIII, Pio X, Pio XI; all’Acta Sanctae Sedis (1865); all’Acta Apostolicae Sedis (1908); agli Atti della Curia Romana: il Thesaurus resolutionum in 167 volumi (1760-1908); la Collectanea della Sacra Congregazione per la Propagazione della Fede in 5 volumi; i Decreta autentica della Congregazione dei Sacri Riti in 5 volumi (1898 e ss.); l’Indice dei libri proibiti.
Il Concilio Vaticano I (1869-1870), già nella fase preparatoria, recepisce la richiesta di molti Vescovi di una reformatio iuris, per rendere più agevole la consultazione delle leggi ridotte a un mare magnum di norme spesso caratterizzate dall’incertezza del loro valore giuridico in quanto obsolete, lacunose oppure mescolate con norme emanate per casi singoli. Si rendeva necessaria la sistemazione delle fonti del diritto canonico in una nuova e unica collezione per assicurare la certezza del diritto, facilitare la consultazione e la retta applicazione delle leggi anche da coloro che non erano esperti, ma avevano la diretta responsabilità della cura pastorale del popolo di Dio.
Il processo di codificazione che da tempo stava entrando nell’ordinamento di diversi stati, aveva indotto molti Vescovi nelle adunanze preparatorie del Concilio Vaticano I a proporre di andare oltre la semplice revisione del Corpus Iuris Canonici per introdurre anche nella Chiesa un Codice di tipo moderno, accessibile a tutti per essere chiaro, sistematico e completo, in cui le norme espresse in maniera sintetica fossero autenticamente garantite con la promulgazione della suprema autorità.
Tra i prodromi della prima codificazione è utile anche ricordare la scuola dello Ius Publicum Ecclesiasticum, fondato sulle proposizioni del Sillabo e sull’enciclica Immortale Dei di Leone XIII, che ispirerà larghi settori della canonistica fin quasi alle soglie del Vaticano II. L’impostazione metodologica dello Ius Publicum Ecclesiasticum risale alla scuola di Würzburg, prevalentemente di carattere apologetico per fondare una teoria generale del diritto canonico, rivendicare la sua autonomia da quello statuale e riaffermare il diritto della Chiesa a difendere la sua libertà rispetto allo stato liberale. La Chiesa è definita societas iuridice perfecta, secondo la visione giusnaturalistica, e possiede tutti i mezzi giuridici per raggiungere il proprio fine. Con la pubblicazione nel 1826 delle cento Theses ex Iure Publico Ecclesiastico, di cui uno dei compilatori fu il Card. Giovanni Soglia Ceroni della Scuola romana, autore delle Institutiones Iuris Publici Ecclesiastici del 1842, la teoria della Chiesa quale societas iuridice perfecta diventa dottrina ufficiale. La perfezione giuridica della Chiesa si fonda su Gesù che l’ha voluta nella sua realtà visibile come societas inequalis, società gerarchica, in cui il primato di Pietro non è solo di onore, ma anche di piena giurisdizione a lui direttamente affidato e ai suoi successori nell’ufficio petrino.
Il dibattito sulla necessità di avviare un percorso di codificazione iniziato prima del Concilio Vaticano I nella fase preparatoria tra il 1864 e il 1867 trovò ostacoli da parte di officiali della Curia facendo prevalere l’urgenza di affrontare problemi politici incombenti. Anche nelle aule conciliari le proposte di coloro che evidenziarono l’obsolescenza delle leggi canoniche e la presenza di lacune per gli stravolgimenti politici a livello mondiale rimasero soffocate. Il dibattito proseguì a fine ottocento vedendo contrapposte due personalità di grande rilievo, il Card. Pietro Gasparri, ancora prete secolare, e il gesuita Franz Xaver Wernz. Il Gasparri, abbandonando l’ordine delle Decretali, predilige il metodo delle Istituzioni, già introdotto tre escoli prima, dopo il concilio di Trento dal grande giurista perugino Giovanni Paolo Lancellotti, e pubblica organici trattati monografici come strumento di sintesi (De matrimonio, De sacra ordinatione, De sanctissima Eucharistia). Il Wernz pubblica un Jus Decretalium che risulta un commentario analitico secondo la consueta disposizione delle Decretali che stima più logico e giuridico riguardo soprattutto al rapporto tra gerarchia d’ordine e gerarchia di giurisdizione, e anche riguardo ai sacramenti che in una trattazione unitaria richiedono una divisione più teologica che canonica risultando giuridicamente inadeguato il loro inserimento nel libro De rebus.
Il progetto di codificazione inizia a prendere concretezza fin dall’inizio del pontificato di Pio X, anche per la spiccata sensibilità pastorale che lo aveva caratterizzato nel suo ministero, con il motu proprio Arduum sane munus del 19 marzo 1904. Nel 1901 il Pontefice aveva nominato Pietro Gasparri segretario della commissione per la codificazione del diritto canonico.
Sotto la direzione del Card. Pietro Gasparri il Codice di Diritto Canonico sarà promulgato da Benedetto XV il 27 maggio 1917 per la sola Chiesa Latina, non quella Orientale, eccetto ciò che per sua natura spetta anche a lei (can. 1). Esso si caratterizza per unitarietà e sistematicità. Ispirandosi alle moderne codificazioni statuali, il nuovo Codice intende dare un ordine razionale alla normativa vigente. Lo scopo della codificazione fu anche di superare la molteplicità delle fonti. Non vengono formalmente abrogate le precedenti collezioni, ma è conservata per la maggior parte dei casi la disciplina finora vigente con alcune eccezioni (can. 6). Il Codice non riguarda, se non consta il contrario, le leggi liturgiche (can. 2), né le convenzioni tra gli Stati (can. 3). Non toglie, se non è detto espressamente, diritti acquisiti, privilegi e indulti (can. 4); rigetta tutte le vigenti consuetudini contrarie riprovate, anche immemorabili; queste però le tollera secondo il giudizio dell’Ordinario, purché siano centenarie o immemorabili (can. 5). I canoni che riportano il diritto antico devono essere interpretati in conformità a esso e secondo la dottrina dei probati auctores (can. 6, n.2); dove se ne discordano, si deve stare al senso proprio (can. 6, n.3) e nel dubbio ci si attiene all’antico (can. 6, n.4). Qualunque pena (can. 6, n. 5) come pure le norme disciplinari (can. 6, n.6) di cui non si fa menzione nel Codice sono abrogate.
Il diritto precedente contenuto nelle collezioni viene riassorbito in larghissima misura, ma con la particolarità che l’insieme delle norme ora costituiscono un unicum in quanto sono da considerarsi emanate contemporaneamente dalla stessa Autorità, quale Supremo legislatore. Vengono introdotti 854 nuovi canoni senza fare riferimenti alle loro fonti.
Il modello classico che si ispira alle Istituzioni di Giustiniano, comune alle nuove codificazioni, è il criterio che regola l’ordine sistematico della ripartizione della materia in personae, res, actiones. Il Codex del 1917 si compone di 2414 canoni distribuiti in cinque libri. Il Libro I presenta le fonti del diritto e il computo del tempo (cann. 1-96); il Libro II De personis (cann. 87-725) contiene il diritto costituzionale della Chiesa ed è suddiviso in De clericis, De religiosis, De laicis; il Libro III De rebus (cann. 726-1551) disciplina i sacramenti, il culto, il Magistero e il patrimonio; il Libro IV De processibus (cann. 1552-2194) e il Libro V De delictis et poenis (cann. 2195-2414).
Il Codice pio-benedettino fu accolto favorevolmente per il progresso che mostrava come codificazione in senso moderno, per la tecnica legislativa e la certezza del carattere di obbligatorietà della legge, per le definizioni legali e la facilità della consultazione.
Alcuni limiti della nuova codificazione furono fin da subito riscontrati per un utilizzo non sempre appropriato del linguaggio giuridico la cui terminologia spesso presenta commistioni tra ciò che è nuovo e ciò che è antiquato aprendo a incertezze e aporie. Per questo motivo appena qualche mese dopo la promulgazione del Codex, e prima ancora che entrasse in vigore, Benedetto XV con il motu proprio Cum iuris canonici del 15 settembre 1917 istituì una commissione cardinalizia per l’interpretazione autentica del Codice nominando presidente il Card. Pietro Gasparri.
Altro aspetto che si affermò sotto il profilo della critica riguardò l’inadeguatezza del Codex a rappresentare il mistero della Chiesa secondo la tripartizione “personae-res-actiones” del diritto romano e, soprattutto nel collocare i sacramenti nel trattato De rebus.
Il Codice pio-benedettino eredita il diritto canonico tridentino ed è permeato da una concezione di Chiesa che, passando attraverso la Restaurazione, era stata delineata dal Sillabo con i principi di diritto pubblico ecclesiastico. Inoltre, esso recepisce la traduzione giuridica degli sviluppi dogmatici del Vaticano I fissati dalla costituzione apostolica Dei Filius e in particolare dalla Pastor Aeternus sul primato di giurisdizione e sull’infallibilità del magistero del Romano Pontefice.
Anche il concetto di societas iuridice perfecta che permeava il Codex senza apparire esplicitamente nell’uso del termine, finiva per indurre il sospetto di un orientamento codicocentrico del diritto idoneo a rappresentare una Chiesa come corpo sociale accentuatamente clericale, che si esprimeva nel trinomio “clero-strutture-ecclesiatiche-potestà”, lontano dal diritto costituzionale, che sarà incarnato nella successiva codificazione ispirata al Concilio Vaticano II.
Il Codex Iuris Canonici del 1917 regolerà per sessantasei anni, insieme alla produzione giuridica successiva, la vita della Chiesa fino alla promulgazione del nuovo Codex che avverrà il 25 gennaio 1983 e la sua entrata in vigore la prima domenica di avvento del 1983. Per quarantadue anni il primo Codex della Chiesa ha rappresentato, pur con le comprensibili imperfezioni, la fonte indiscussa del diritto, cioè fino a quando il Papa Giovanni XXIII annuncia il 25 gennaio 1959 l’indizione del concilio ecumenico, del sinodo diocesano romano e la riforma del Codice di Diritto Canonico.