Federico Caffè: ricordo di un maestro di politica economica

 

La sua attività dedicata alla diffusione dell’opera del grande economista britannico, nei cui confronti esisteva in Italia diffidenza, appare come una testimonianza di resistenza contro il neo-liberismo economico, in una congiuntura storica, gli anni Ottanta, caratterizzata da una riscoperta del mercato nteso come puro laissez faire e dalla diffusione di tesi che negavano ogni ruolo per l’intervento pubblico. Al contrario Caffè, pur rifiutando la teoria del potere assoluto dello Stato, rivendicava il suo ruolo indispensabile nell’economia per evitare lo strapotere degli interessi privati e per guidare lo sviluppo della nazione verso prospettive di progresso, di libertà e di uguaglianza, in quanto la concorrenza perfetta è un modello semplificato, lontano dalla realtà concreta. In natura, infatti, un mercato concorrenziale non esiste, è una costruzione dell’uomo, come già è evidente fin dal sorgere della scienza economica con Adam Smith, che a sua volta richiede l’intervento dello Stato per tutelare la concorrenza e controllare i monopoli.

Quello di Caffè è un pensiero ed un impianto etico volti ad impedire le storture e le derive che un certo capitalismo imprime sulla condizione delle persone, determinando le disuguaglianze inaccettabili che segnano l’epoca in cui viviamo, ed anche se sottovalutò i pericoli di una spesa pubblica fuori controllo, con i rischi conseguenti di un aumento del rapporto tra debito pubblico e PIL (anche se alla metà degli anni Ottanta il rapporto era ancora intorno all’85 per cento), l’idea del ruolo dello Stato di garante della libertà di tutti e di promotore della piena occupazione, perché senza il lavoro la persona non può avere la dignità che le compete, mantiene ancora oggi tutto il suo valore.