di Leonardo Salutati • Trent’anni fa il 15 aprile 1987, spariva per non farsi più rivedere, Federico Caffè, economista autorevole ed erudito, dalla cultura enciclopedica mai fine a sé stessa, un maestro prima che un grande scienziato, votato completamente all’insegnamento. Uno degli economisti italiani più importanti degli anni che vanno dal 1950 al 1986, invidiato all’Italia. Aderiva a una idea di economia che proveniva dal pensiero di John Maynard Keynes, di cui era profondo conoscitore e convinto sostenitore, seppur libero di far interagire il pensiero keynesiano con le correnti del pensiero liberale classico e con quelle del pensiero socialista e marxista. Caffè amava ripetere che è l’economia che deve essere al servizio dell’uomo, non viceversa; per questo il suo lavoro era teso all’elaborazione di idee finalizzate all’agire politico per creare condizioni di piena occupazione e di pienezza di diritti senza le quali può aversi crescita economica ma non progresso sociale. A questa impostazione culturale fa capo la sua critica a quelle concezioni che appiattiscono l’economia sulla finanza e che dall’andamento dei mercati finanziari fanno discendere le condizioni a cui deve sottostare il lavoro, la persona, la società.
La sua attività dedicata alla diffusione dell’opera del grande economista britannico, nei cui confronti esisteva in Italia diffidenza, appare come una testimonianza di resistenza contro il neo-liberismo economico, in una congiuntura storica, gli anni Ottanta, caratterizzata da una riscoperta del mercato nteso come puro laissez faire e dalla diffusione di tesi che negavano ogni ruolo per l’intervento pubblico. Al contrario Caffè, pur rifiutando la teoria del potere assoluto dello Stato, rivendicava il suo ruolo indispensabile nell’economia per evitare lo strapotere degli interessi privati e per guidare lo sviluppo della nazione verso prospettive di progresso, di libertà e di uguaglianza, in quanto la concorrenza perfetta è un modello semplificato, lontano dalla realtà concreta. In natura, infatti, un mercato concorrenziale non esiste, è una costruzione dell’uomo, come già è evidente fin dal sorgere della scienza economica con Adam Smith, che a sua volta richiede l’intervento dello Stato per tutelare la concorrenza e controllare i monopoli.
Per esempio, negli anni Ottanta la Borsa sembrava la panacea di tutti i mali con l’investire in titoli per far fruttare di più il denaro, per arricchirsi, per accumulare. Però già all’inizio degli anni Settanta Caffè aveva denunciato la presenza di «un capitalismo fatto d’inganni, di rocamboleschi intrecci societari, di paradisi fiscali, di ricatti, di tangenti, di minacce, di trame». Nel 1971 sul Giornale degli economisti scriveva: «Da tempo sono convinto che la sovrastruttura finanziario-borsistica con le caratteristiche che presenta nei Paesi capitalisticamente avanzati favorisca non già il vigore competitivo ma un gioco spregiudicato di tipo predatorio che opera sistematicamente a danno di categorie innumerevoli e sprovvedute di risparmiatori in un quadro istituzionale che di fatto consente e legittima la ricorrente decurtazione o il pratico spossessamento dei loro peculi». E ancora nel 1976: «Un rilievo del genere non trae origine da fatti episodici o da insufficienze istituzionali attribuibili a carenze legislative. Si tratta di una costatazione originata dalla persistenza evidente, nell’ambito delle strutture finanziario-borsistiche, di un capitalismo aggressivo e violento, che non sembra avere nulla in comune con lo “spirito di responsabilità pubblica” rilevabile come componente di una moderna strategia oligopolistica nell’ambito dell’attività produttiva industriale».
È l’analisi di uno scienziato che riteneva fallace la convinzione liberista dell’autoregolazione del mercato di cui la Borsa era la punta di un iceberg e la cui deriva minacciava lo stesso mercato e lo Stato. Caffè riteneva che quelle speculazioni e l’evolversi della Borsa fossero frutto della mancata sorveglianza dello Stato e si lamentava che durante l’assalto ai titoli in Borsa degli anni Settanta e Ottanta, nessuna voce dello Stato si fosse sentita in dovere di invitare alla prudenza. Il bubbone, secondo Caffè, sarebbe scoppiato trascinando soprattutto i poveri alla rovina. Previsione puntualmente confermata dalle successive crisi del 1987, 1997-1998, 2000-2001, 2007-2008.
Quello di Caffè è un pensiero ed un impianto etico volti ad impedire le storture e le derive che un certo capitalismo imprime sulla condizione delle persone, determinando le disuguaglianze inaccettabili che segnano l’epoca in cui viviamo, ed anche se sottovalutò i pericoli di una spesa pubblica fuori controllo, con i rischi conseguenti di un aumento del rapporto tra debito pubblico e PIL (anche se alla metà degli anni Ottanta il rapporto era ancora intorno all’85 per cento), l’idea del ruolo dello Stato di garante della libertà di tutti e di promotore della piena occupazione, perché senza il lavoro la persona non può avere la dignità che le compete, mantiene ancora oggi tutto il suo valore.