di Elia Carrai • Tornare a parlare dell’incontro tra pensiero greco e nascente cristianesimo e delle conseguenti ripercussioni di tale evento potrebbe risultare superfluo quanto, forse, inflazionato. Tuttavia, è proprio in ordine a guadagnare una prospettiva sintetica realmente adeguata alla mole di dati oggi a nostra disposizione, che può ancora essere utile spendere qualche parola sull’argomento.
Le posizioni intorno a questo tema raggiungono curiose polarizzazioni: troviamo chi, come Dörrie, nega che si possa parlare di incontro in senso pieno tra cultura greca e mondo cristiano, sconfessando l’idea di un Plato Christianus, ammettendo commistioni tra platonismo e teologia nel solo ambito delle eresie; come, al contempo, abbiamo un Beierwaltes che capovolge le tesi di Dörrie esplicitando in modo alto l’inevitabile nesso strutturale che deve intercorrere tra filosofia e teologia (cf. W. Beierwaltes, Platonismo nel Cristianesimo, 5-10). Allo stesso modo, se da un lato sembrava ormai divenuto ovvio esprimersi con Harnak nei termini di una «ellennizzazione del cristianesimo», abbiamo più recentemente compreso che potrebbe essere più legittimo e adeguato esprimerci in termini di «cristianizzazione dell’ellenismo» (Ratzinger). Di fatto non è possibile rimanere nell’incertezza intorno al valore di questo “incontro”. Si gioca in esso la questione decisiva del rapporto tra pensiero teologico e riflessione filosofica, tra Rivelazione e ragione. Un “incontro” qualificato a più riprese quale drammatica e presuntuosa deviazione dal Kerigma Evangelico (De Vogel, Barth, Brunner,…), e più recentemente ri-compreso come un evento cruciale dettato dalla provvidenza: genuino incontro tra l’umana ragione protesa oltre se stessa e la fede in un Dio che irrompe nella storia incontrando l’uomo, coinvolgendosi con esso come Logos-amore incarnato; basti pensare a riguardo al contributo di Benedetto XVI.
Questa disparità di posizioni sembra riflettere, oltretutto, un’eterogeneità che già nei Padri era percepibile, in ordine al rapporto tra filosofia (specialmente platonica) e fede in Cristo. Se da un lato Agostino riteneva che nessuno quanto i platonici si fosse avvicinato alla verità (La città di Dio,VIII, 5), e che a Platone sarebbe bastato cambiare poche cose del suo pensiero per scoprirsi cristiano (La vera religione, IV, 7); dall’altro un apologeta come Tertulliano lamentava che Platone fosse divenuto «in buona fede, il vivandiere di tutti gli eretici» (De anima, 23, 5).
Le metodologie che mettono a tema la storia di questo “incontro” si orientano secondo due fondamentali orizzonti, entro i quali a loro volta si può assumere una prospettiva di taglio ora filosofico ora teologico. Un primo approccio contenutistico mette in luce quelle che possiamo definire convergenze dottrinali, tentando di esplicitare quali siano i fondamentali punti di contatto tra le conclusioni cui approda il platonismo e i contenuti della rivelazione cristiana, prospettiva non priva del rischio di una eccessiva semplificazione: affinità si ordine etico, unicità di un principio informante l’essere etc. (per es. M. Zambon, Platonismo e cristianesimo, in Filosofia tardo-antica, 2012, 129-151). Un altro approccio, che potremmo definire storico, soppesa i diversi e molteplici aspetti in gioco nella tardo-antichità: la necessità di difendersi dalle accuse che provenivano dagli ambienti colti, la concomitante conversione al cristianesimo di uomini di ceti sociali alti; elementi questi che favorirono certamente, e in modo decisivo, l’incontro con il pensiero e la cultura greco-romana.
Se da un lato le convergenze dottrinali e le contingenze storiche riescono a fornirci dati utili alla comprensione e allo sviluppo di questo incontro tra cristianesimo e platonismo, dall’altro rischia di rimanere come a margine un dato a nostro avviso decisivo.
Ciò che determinò un incontro così ricco di conseguenze non furono solamente una serie di convergenze intorno a conclusioni dottrinali ed etiche o a contingenze e convenienze storiche. I primi pensatori cristiani dovettero riconoscere innanzitutto una comunanza di domanda, a cui tanto il cristianesimo quanto il platonismo pretendevano offrire una risposta. Non sarebbe innanzitutto nel convergere delle conclusioni dottrinali del platonismo e del cristianesimo la chiave di volta per comprendere la fortuna del loro incontro, quanto in un comune e medesimo “interrogativo originale”.
Ciò che dovette sorprendere i primi cristiani fu che la domanda a cui Cristo finalmente aveva dato risposta, la pienezza di bisogno che la Risurrezione di Cristo rivelava e compiva allo stesso tempo, era un esigenza e un anelito che anche i greci conoscevano. L’incontro tra cristianesimo ed ellenismo coincise così con la presa di coscienza sempre più chiara da parte cristiana che l’avvenimento Cristo non rispondeva semplicemente alle attese maturate nel popolo di Israele, quanto ad un bisogno intrinseco proprio di ogni uomo e che i greci avevano da tempo imparato a tematizzare: « L’incontro tra il messaggio biblico e il pensiero greco non era un semplice caso. La visione di san Paolo, davanti al quale si erano chiuse le vie dell’Asia e che, in sogno, vide un Macedone e sentì la sua supplica: “Passa in Macedonia e aiutaci!” (cfr At 16,6-10) – questa visione può essere interpretata come una “condensazione” della necessità intrinseca di un avvicinamento tra la fede biblica e l’interrogarsi greco» (Benedetto XVI, Fede verità e ragione, Regensburg, 12.9.2006). Comprendiamo allora perché sia così decisivo tentare di comprendere sempre più in profondità quale fosse il nucleo profondo di questo “interrogarsi”. Occorre, quindi, rifuggire la tentazione di riduzionismi semplificanti circa il platonismo, optando per un tipo di comprensione più esistenziale: quello tra cristianesimo e platonismo fu innanzitutto un incontro tra “esistenze”, in cui le differenze permisero di cogliere in modo paradossale una comune fondamentale certezza: per amare questo mondo materiale ne deve pur esistere un altro, quel plus d’etre (per dirla con Mounier) che strappa l’uomo dal gioco matrigno della superficie contingente ed effimera delle cose, quell’essere profondo, destinato a non passare e a cui le cose sono ultimamente legate. «L’intima natura delle cose ama nascondersi» affermava Eraclito (fr. 116 = DK, 22 B 123) La profondità della cose, proprio in quanto “delle cose”, era per i pensatori greci da un lato vicina, quasi “respirabile”, e tuttavia remota, come una meta tanto agognata quanto inaccessibile. Comprendendo questo riscopriamo la statura di Platone: che un uomo davanti a ciò che passa avverta l’insufficienza di una simile condizione è un fatto; che, muovendo da questa fondamentale constatazione, da questa radicale insufficienza, un uomo arrivi, però, ad ammettere, come lanciandosi oltre se stesso (cuore e ragione) oltre il limite così oggettivo del dato materiale, l’esistenza dell’eterno, sede di ciò che delle cose non può “finire”, (l’anima informante, l’idea, la verità profonda), e su questo presentimento tentare la traversata che porta al “mondo superiore”, che un uomo rischi tutto questo è contrassegno di una grandezza d’animo che i primi cristiani non poterono trascurare.
«I Greci sentivano in modo straordinario, anzi passionale, l’“essere”, la realtà plasmata, l’esistere in una configurazione limitabile, articolata, costruita in forma pienamente sensata…(l’arte plastica!). Altrettanto avvertivano però ciò che dappertutto appare in cambiamento, in divenire, in dissoluzione…In Platone tutta questa questione acquista peso in merito all’uomo: cosa in lui perisce, che cosa invece in lui permane, ossia realmente “è”…questo quesito si traduce in quello della immortalità: che cosa è immortale e perché lo è» (R. Guardini, Socrate e Platone, Opera Omnia XVI, 2006, 353). Perché ciò che amiamo passa? In che modo amare se tutto è destinato a perire? La sete dell’eterno che si scatena a partire dall’esperienza del bello e del vero è l’anima profonda del platonismo. «Riassumendo quindi, l’amore è desiderio di possedere il bene per sempre» (Platone, Simposio, 206 a). Fu questa sete profonda che il cristianesimo intercettò e riconobbe propria, in quanto di ogni uomo non solo del filosofo. Poiché ogni uomo è sensibile al bello e ad esso non può rimanere indifferente. La brama dell’eterno non è l’essere “assetati” di un concetto astratto (che cognizione concettuale estratta può avere l’uomo dell’eterno?!), quanto il desiderare che la bellezza permanga, che l’armonia abbia ad esistere e non perisca. È solo quando sperimentiamo la forza sconvolgente del bello che sorge il presentimento di un “per sempre”: «soltanto la bellezza ebbe questa sorte, di essere ciò che più di tutto è manifesto e amabile» (Platone, Phaedr. 250 c. ss); essa spalanca l’uomo alla brama che “il bello non finisca” e proprio così orienta l’uomo oltre se stesso. «L’idea della bellezza è l’unica che, nella sua forma fenomenica, divenga accessibile all’occhio e all’orecchio, è in grado di evocare nell’anima il ricordo della sua patria spirituale “iperurania” e risveglia in lei l’eros, la brama di partecipare all’eterno […]» (Pohlenz, L’uomo greco, 422 ). Questo è l’eros autentico, superamento di ogni mania in cui l’istintività confonde, fino ad esaurire, la bellezza nel piacere:assimilarla perché destinata, altrimenti, a passare. L’eros si rivela allora esigenza profondissima di amare, fino a toccare l’eterno, è quell’amore potente che arde della volontà di non perder nulla di ciò verso cui si rivolge. «È l’eros che risveglia l’appassionato desiderio di contemplare l’assoluto, che scatena le energie creative dell’anima e le avvia a conquiste spirituali capaci di dare fama eterna ben più che le imprese eroiche cantate dai poeti» (M. Pohlenz, L’uomo greco, 423). La bellezza manifesta il legame del materiale (contingente) con il mondo dell’immateriale (eterno), lo manifesta non a discapito del mondo materiale, della sua fenomenicità tangibile nei suoi concreti rapporti, quanto a suo coronamento offrendo a tutta l’esistenza materiale un’alternativa alla sola via della morte dell’esaurimento, la possibile di amare più perfettamente lo stesso mondo contingente. «Solo un riflesso di questa bellezza eterna ci giunge nel mondo di qua, ma è sufficiente per trasfigurare il mondo fenomenico e per conferirgli valore» (Pohlenz, L’uomo greco, 422 ). Ciò significa che la bellezza cambia il mondo e lo trasfigura ponendo l’uomo in una possibilità inedita di affermare il bello stesso. Qui sta la grandezza dell’impresa platoniana: offrire una possibilità di affermazione dell’essere e del bello che fosse altra da un’istintività che tenta di impossessarsi della bellezza esaurendola in se stessi, così da cancellare la ferita che essa apre nell’animo.
I primi cristiani non potevano non sorprendersi di come la risposta a questa esigenza intima e profonda, di poter amare ciò che sembra destinato a morire, trovasse il suo compimento reale nel Mistero Pasquale di Cristo. La morte e la risurrezione non erano semplici accidenti di percorso: nell’avvenimento Cristo veniva data risposta alla più profonda domanda dell’uomo, era finalmente possibile amare, era finalmente posta un’alternativa al terrore per la morte guardando con audacia all’orizzonte di un mondo trasfigurato (cf. T. D’Aquino, Super secundam ad Corinthios 5,2). Se, come afferma G. Marcel, «Ama chi può dire all’altro tu non morirai», possiamo dire che i primi cristiani e i platonici si incontrarono proprio nella comune certezza che si può amare ciò che appare destinato inevitabilmente a sfiorire, solo se oltre all’aria respirabile di questo mondo ne esiste un’altra, quella del mondo dell’autenticità, dell’Assoluto. «L’amore è la relazione fondamentale a ciò che è […] solo l’atteggiamento d’amore dischiude la verità; la realtà ubbidisce solo all’amore» (R. Guardini, Socrate e Platone, Opera Omnia XVI, 2006, 350). Per questo, secondo Paltone, è Amore (Eros) il più originale e il primo fra gli dei, l’unico con la forza di spinger l’uomo al bene, e al “ben amare” (Simposio 180 c; 181 a). Qualsiasi convergenza e divergenza tra “conclusioni” platoniche e cristianesimo non può non considerare innanzitutto questa fondamentale convergenza esistenziale, prima ancora che dottrinale: per comprendere l’incontro di questi mondi è necessario riconsiderare sempre, ogni volta, l’anelito profondo dell’uno e la pretesa di compimento dell’altro. Compreso in questa prospettiva ancora oggi la posizione Platonica non può non affascinare il cristiano, il quale incontrata in Cristo la risposta, può riscoprire ogni volta in Platone un compagno di viaggio capace di riproporre la domanda. Clemente d’Alessandria aveva chiaro che solo Cristo introduce una vera svolta nell’esistenza umana, solo il Figlio di Dio, nella sua divino-umanità, porta l’autentica risposta al bisogno umano e, allo stesso tempo, proprio in questo incontro all’uomo si chiarisce la sua autentica domanda, la profondità di quel bisogno che Platone e la filosofia greca con lui avevano colto in modo geniale. Così che ogni cristiano si scopre “ad Atene”, si scopre in qualche modo “filosofo”: portatore di una domanda a cui solo un intervento di Dio può rispondere (cf. Platone, Fedone 35). «Da che Cristo è venuto, non abbiamo più bisogno di scuole umanistiche. Egli è un maestro che insegna tutto. Per suo tramite tutta la terra è diventata Atene e Grecia» (Clemente d’Alessandria, in Hugo Ball, “Cristianesimo bizantino. Vite di tre santi”, 2015).