«Verso il compimento della salvezza nella tradizione ortodossa di Kallistos Ware». Sottolineature ontologiche

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downloaddi Dario Chiapetti • Verso il compimento della salvezza nella tradizione ortodossa (Lipa, Roma 2018, 117 pp.) presenta per la prima volta al pubblico italiano due testi – un articolo sulla comprensione della salvezza nell’Ortodossia del 1994 e una relazione sulla salvezza secondo san Silvano del Monte Athos del 1997 – di Kallistos Ware (1934), vescovo titolare di Diokleia e vescovo assistente dell’arcidiocesi ortodossa di Thiateira e Gran Bretagna del Patriarcato ecumenico. Questi brevi ma densi scritti tentano di esporre brevemente e globalmente la visione – ufficiale e a livello dei principali theologumena formulati – dell’Ortodossia circa la questione della salvezza e mostrano come – e in che termini – essa sia l’oggetto centrale di tutta la Rivelazione e dell’economia salvifica. Michelina Tenace nella Prefazione osserva – richiamando le parole di teologi, come Luis F. Ladaria, e magisteriali, come quelle del recente documento della Congregazione per la Dottrina della Fede Placuit Deo – come sia proprio sulla ricomprensione di tale punto che la chiesa cattolica romana si debba soffermare e come questa possa riconoscere nella prospettiva patristico-orientale – richiamando, questa volta, studiosi dell’Ortodossia come Basilio Petrà – il «ruolo fondamentale» che quest’ultima ha svolto e può tornare a svolgere in ordine all’avvicinamento di tale obbiettivo.

Tenace individua chiaramente gli aspetti critici da affrontare. Tre slittamenti sono avvenuti nella teologia cattolica e, in particolare, nell’antropologia: quello dalla creatura umana alla natura umana; quello dall’unità corpo-anima-spirito all’anima forma del corpo; quello di astrazione dell’essere umano dalla storia e dal creato. Non è poco. Il primo slittamento sembra rivelare l’avvenuta crisi della comprensione della relazione ontologica con Dio: la perdita della centralità della persona quale essere personale costituito (creatura) nella libertà da un essere personale libero-relazionale, quello divino trinitario, porta prima allo scollamento tra la persona e la sua natura, poi al prevalere di quest’ultima sulla prima; la natura spersonalizzata, de-relazionalizzata, necessita la persona, e ciò avviene nel male, vivere necessariamente per/nella morte, ma anche nel bene, un bene come realizzazione nella persona dei dettami di tale natura che, ormai spersonalizzata prefigge, necessita, valori (spersonalizzati) da raggiungere mediante un qualche auto-trascendimento del sé che, individualizzato, tale rimane, così come accade nell’ethos della grecità classica o nella devozione moderna. In questo slittamento la relazione con Dio è stabilita solo nell’ordine morale. La natura compiuta in sé – l’ottimistica fiducia scolastica (non tommasiana) nell’ordo naturalis, verso la quale Benedetto XVI recentemente ha messo in guardia, cf. Liberare la libertà, Cantagalli, Siena 2018, 9-15 – razionale non-relazionale, e quindi “atomizzata” – per dirla con Christos Yannaras – deve, o può, raggiungere Dio primariamente nell’interiorità della soggettività e vi riesce per le sue forze (Pelagio) o per l’aiuto interiore offertole dalla grazia (Agostino): si è passati così – scrive Tenace riprendendo Gisbert Greshake – dalla dottrina della salvezza alla teologia della grazia. Il secondo slittamento rivela la crisi nel concepire la relazione – sempre ontologica – dell’uomo con se stesso: la perdita della visione globale della persona quale unità spirituale-materiale – unità che dice che l’un termine non solo si esprime con l’altro e per mezzo dell’altro ma in forza della comunione con l’altro – porta alla concezione antropologica nichilista, di platonica e manichea memoria, ma, in fin dei conti anche aristotelica, per cui l’anima si deve liberare dal corpo per essere realmente: per affermarmi devo distruggermi, come già aveva colto Fëdor Dostoevskij ne I demoni. Il terzo slittamento rivela, infine, l’incapacità di intendere la relazione – ancora ontologica – della persona con i soggetti con i quali condivide la natura – gli altri uomini – e la creazione e la storia: l’uomo si salva a prescindere dal mondo, anzi, dal mondo, proprio da quell’opera – poli-ipostatica e pertanto relazionale-comunionale – di Dio presentata dalla Scrittura come “molto buona”.

In definitiva, l’uomo si afferma ontologicamente senza il Dio “personale” (così come si passa dal primato ontologico della persona umana a quello della natura umana così avviene anche nel caso della Persona Divina e della natura divina), senza se stesso, senza gli altri. E dato che questi constata che non riesce in tale impresa cerca di individuare per come può, per come la sua natura spersonalizzata glielo consente, una soluzione a tale dramma: una soluzione giuridica, uno sconto di pena per i suoi peccati e per quello di Adamo, e lo trova per lo più in un’idea di “sostituzione”. È a questo punto che manifesta tutto il suo valore la prospettiva orientale di cui non voglio richiamare, delle considerazioni di Ware, che alcuni elementi essenziali, sottolineandone il dato ontologico e sperando di invitare così chi legge ad avventurarsi nello spazio teologico-teologale che essa dischiude.

L’Autore, al fine di risolvere il problema della tragedia umana e quello a questa connesso, cioè della salvezza, riafferma innanzitutto l’unicità, l’indivisibilità e l’unitarietà del mistero della salvezza. Non vi è adeguata riflessione soteriologica che riduca l’attenzione agli aiuti interiori, al fine di compiere atti meritori, offerti all’uomo da parte di una grazia compresa considerando magari unicamente l’evento della croce di Cristo che giustifica, senza chiarire la santificazione-trasfigurazione dell’essere (personale) dell’uomo o senza la sua libera partecipazione ad essa: vi è la storia della salvezza che, unitariamente e interamente considerata, apre alla comprensione della vita divina quale mistero d’amore trinitario, libero e “alterizzante”, la quale dischiude, non solo alla ratio ma all’esistenza, un’ontologia quale ontologia della persona, dell’alterità, dell’identità, della libertà, il tutto all’insegna della comunione, che è ciò che si invera nella vita nello Spirito Santo, soprattutto nei sacramenti, azioni-eventi in cui la comunione tra gli uomini tra loro e con la creazione e in virtù di essa è in/da Dio costituita ontologicamente e ciò realizza in questi il loro costitutivo ontologico di “persona”.

Dopo i tre slittamenti, ecco i tre termini esplicativi della “salvezza” così come Ware appunta, riprendendo l’insegnamento di san Silvano e, in generale, dell’Ortodossia: personale, pan-umana e cosmica. Personale, non in senso morale (io mi applico nel processo di salvezza) o psicologico (solo l’io, e non un altro al posto suo, può sperimentare la salvezza) ma in senso ontologico: l’azione personale delle Persone Divine che inverano nell’uomo – incorporazione nell’ipostasi del Figlio per lo Spirito in relazione al Padre – il suo contenuto ontologico personale. E tale contenuto è pan-umano e cosmico. Pan-umano: l’Ortodossia non si limita a rilevare la comunanza degli uomini nella colpa (di Adamo) – tanto che guardando Adamo, l’Uomo, proprio con gli occhi della natura “individualizzata” da Adamo, si avverte nei suoi confronti un senso di estraneità, quando non di insofferenza (e con essa anche insofferenza verso Dio?), per dover portare addosso una colpa non commessa e le conseguenze ad essa connesse – ma il loro essere costituiti in Adamo – per san Silvano – «nostro padre», come «coinerenza», come esistenza di comunione tanto da farli essere (“essere”, non: “sentirsi” o “doversi sentire”) solidali nel peccato (la fragilità dell’altro è la mia, il peccato dell’altro è il mio, il nemico da amare è l’altro-di-me), solidali nella colpa (Adamo cadde per non accettare di essere coinvolto nel peccato di Eva, l’indebolimento quindi della natura umana che lo smarrimento della coinerenza provoca riguarda tutti, oltre che tutto, cioè gli aspetti fisici e morali del vivere), solidali nella salvezza (essere ricostituiti come unità, nell’alterità generata dall’unità di umanità trasformate totalmente) come i maestri spirituali dell’Ortodossia ricordano quando invitano a piangere per tutti, pregare per tutti, vivere per tutti. Amare anche – senso cosmico – gli alberi e gli animali, cioè la creazione. Non solo i «cieli nuovi» attende il cristiano ma la «terra nuova» (cf. Ap 21,1) che, sottomessa alla caducità, attende la sua liberazione proprio dalla «manifestazione dei figli di Dio» (cf. Rom 8,19-23), della persona: è questo il senso della figura teologica rilevante per l’Oriente dell’uomo sacerdote della creazione che – come si ricorda della visione di san Massimo il Confessore – porta tutte le cose divise in unità e così le restituisce a Dio creatore.

Care a me le immagini, chiudo con un’icona, l’icona della salvezza. L’Adamo Totale: il Nuovo Adamo che – come scrive Ware riprendendo padre Sofronij – «rende tutte le persone umane “consustanziali” ed “ontologicamente una”». Uno e Molti, come in cielo così in terra per sempre: è partecipare a questo principio ontologico proprio della Trinità trasfigurante la propria umanità, la salvezza.

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Dario Chiapetti

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