di Leonardo Salutati • L’11 Aprile del 1963, quasi 60 anni fa, sulla scorta dell’esperienza ancora viva della tragedia della 2° Guerra mondiale e all’indomani del picco di tensione raggiunto nel 1962 tra le due potenze nucleari, USA e Unione Sovietica, a seguito della crisi dei missili di Cuba che portò pericolosamente l’umanità sull’orlo del baratro di un conflitto nucleare, sventato grazie all’intervento di Giovanni XXIII, lo stesso Pontefice pubblicò l’enciclica . Questo importantissimo documento generò una vera e propria rivoluzione nell’insegnamento della Chiesa sui temi riguardanti la pace e la guerra, concentrando la propria attenzione su ciò che è necessario per costruire la pace e condannando senza mezzi termini qualsiasi ricorso alla guerra.
Il Papa offre la novità di una riflessione che si sposta dal terreno teorico a quello concreto delle azioni utili a costruire la pace. Egli si rivolge alla coscienza di tutti gli uomini, credenti e non credenti, per dire loro che la pace è doverosa, è possibile e dipende da ciascuno, è il risultato di rapporti umani fondati sui quattro pilastri della verità, della giustizia, della carità e della libertà (Pacem in terris 20). La pace è, e non può essere altrimenti, il cammino stesso della storia umana orientata verso l’incontro con il Principe della pace (ibidem 89), il Signore Gesù «fine della storia umana» (Gaudium et spes 45).
Fraternità, condivisione, attenzione alla dignità e ai bisogni di ogni membro della famiglia umana costituiscono il progressivo attuarsi del disegno di Dio sulla storia. Infatti Non può esserci vera pace se non c’è cura e attenzione allo sviluppo di tutta l’umanità secondo criteri di solidarietà e carità, e non secondo quelli della “legge del più forte”. Pacem in terris sottolinea in modo chiaro e innovativo il legame inscindibile tra pace vera e duratura e giustizia, affermando che la ricerca del bene comune universale, è il fine principale dell’autorità politica e il valore morale essenziale nella costruzione della vita sociale (Pacem in terris 66).
Affrontando la questione degli armamenti e del disarmo vengono richiamati quattro punti essenziali. 1) L’enorme quantità di armamenti prodotti è anzitutto uno spreco gigantesco di risorse che potrebbero essere utilizzate per lo sviluppo dei popoli, in particolare di quelli più poveri. 2) La corsa agli armamenti è assurda perché innesca una escalation che non garantisce la sicurezza a nessuno. 3) L’uso delle armi nucleari in un eventuale conflitto potrebbe condurre ad una catastrofe di dimensioni inimmaginabili che pregiudicherebbe la stessa esistenza dell’umanità. 4) L’invito alle autorità politiche ad impegnarsi affinché le tensioni e le dispute fra Stati siano affrontate e risolte essenzialmente per via diplomatica, attraverso la lealtà, il rispetto della giustizia e del diritto internazionale.
Al culmine, poi, della riflessione su ciò che è necessario per costruire la pace, troviamo un passaggio che, purtroppo, la traduzione italiana rende in modo infedele al testo originale latino e che tradotto letteralmente enuncia un principio morale di assoluta importanza quando si afferma che: «In questa nostra epoca che si gloria della potenza atomica è estraneo alla ragione (alienum est a ratione) che la guerra sia ormai uno strumento adatto per ripristinare i diritti violati». Con questo pronunciamento siamo di fronte ad una svolta epocale, perché si dichiara definitivamente superata la secolare dottrina della guerra giusta.
Con una lettura teologale e sapiente della storia, Pacem in terris non giudica il passato e neppure dichiara errate le valutazioni fatte dalla Chiesa in altri contesti storici. Tuttavia, con chiarezza, lucidità e lungimiranza prende atto che nel nostro tempo, in cui si dispone dell’arma atomica, è irrazionale, ovvero immorale, invocare la condizione più frequentemente e facilmente richiamata nel corso del tempo per giudicare la moralità di una guerra, ovvero la necessità di «ripristinare i diritti violati» di uno stato quale giusta causa per la guerra, invitando piuttosto a prendere atto della necessità e della possibilità di individuare nuovi criteri e nuove strade per superare le contese internazionali, in un modo più umano e rispettoso della dignità di ogni essere umano.
Purtroppo, ancora oggi, dobbiamo prendere atto che questo insegnamento, riproposto e arricchito dal successivo Magistero sociale della Chiesa, è stato poco considerato e, “irrazionalmente”, tante scelte di soggetti internazionali non hanno tenuto adeguatamente conto nel corso del tempo, dei “quattro pilastri della pace” indicati da Pacem in terris.
Giovanni XXIII era animato da un profondo ottimismo nelle capacità di ogni uomo di esprimere il bene e il buono che è in lui. L’ottimismo del Papa trovava fondamento nell’assoluta fiducia nel Signore Gesù che, dal momento della risurrezione, offre a tutti il dono della sua pace, che non è la semplice assenza di guerra ma la possibilità di un mondo riconciliato e fondato su verità, giustizia, amore e libertà. Oggi ancor di più ogni uomo di buona volontà dovrebbe fare proprio l’ottimismo di Giovanni XXIII, per individuare la via della pace nella propria quotidianità, così come dimostrò di saper fare a suo tempo il Santo Pontefice in occasione della drammatica crisi di Cuba.