L’inadeguatezza del Pil

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di Leonardo Salutati · Nel XVIII secolo si è verificato un vero e proprio cambiamento di paradigma quando, tra i tanti avvenimenti, lavoro e produzione diventano dimensioni sempre più centrali nella società. Adam Smith nel suo Ricerche sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776) descrive individui che si gettano nel lavoro, ossessionati dal raggiungimento della più grande produzione possibile, dando vita al gigantesco malinteso riguardo l’importanza data al Prodotto interno lordo (Pil) di una nazione.

Infatti, l’attenzione esclusiva alle variazioni del Pil, trascura informazioni sullo stato della società e della sua base fisica, la Terra, che raccontano di un inesorabile degrado, fino ad una decomposizione del tessuto sociale e degli ecosistemi.

Questo problema era già chiaro negli anni settanta e Populorum progressio, l’enciclica di Paolo VI sullo sviluppo, è in anticipo su tutti nel denunciarlo. Seguiranno le ricerche molto lucide di vari economisti in tutto il mondo e soprattutto il rapporto su I limiti dello sviluppo del Mit nel 1972, commissionato dal Club di Roma, che denuncia l’incompatibilità delle quantità di materia ed energia estratte dalla terra con la finitezza del pianeta.

L’interesse sull’argomento che gradualmente andava allargandosi, perse tuttavia di rilevanza a causa dei due shock petroliferi di quegli anni (1973 e 1979) che monopolizzarono l’attenzione sulle conseguenze di disoccupazione e di difficoltà economiche che ne seguirono. Successivamente l’avvento del neoliberismo e della globalizzazione rinviarono ancora ogni riflessione sull’adeguatezza della misurazione dello sviluppo in termini di Pil.

Nel 2008 in Francia la Commissione Grenelle de l’environnement elaborò l’idea che la soluzione della crisi ecologica fosse la via ideale per risolvere la crisi socio-economica e nel 2009 il successivo Rapporto della Commissione sulla misura dell’attività economica e del progresso sociale, composta da economisti del calibro di Joseph Stiglitz, Amartia Sen e Jean Paul Fitoussi, denunciò ancora l’inadeguatezza del Pil come misura della ripresa economica, perché non metteva in luce il rischio ecologico derivante dalle conseguenza dello sfruttamento intensivo delle risorse naturali. Però il sopraggiungere della crisi dei debiti sovrani del 2010 nuovamente portò all’abbandono di ogni iniziativa, che perdura tutt’oggi.

A questa situazione si aggiunge il fatto che l’economia è estremamente finanziarizzata ed opera nel breve e brevissimo termine. I mercati finanziari vivono sull’orizzonte del minuto successivo e non sul medio-lungo termine e il mercato premia le imprese che fanno staccare il dividendo più alto, indipendentemente da qualsiasi considerazione ambientale. Tutte le grandi banche universali, inoltre, detengono enormi quantitativi di asset legati a carbone, gas e petrolio che continuano a generare alti rendimenti, per cui un cambio di paradigma non sarà possibile fintanto che non vi sarà un sistema che penalizzi chi ottiene risultati con la finanza senza scrupoli e a scapito della salute della Terra, favorendo invece chi investe sul lungo termine, senza il condizionamento delle attese degli azionisti, ponendo al centro l’interesse generale e il bene comune (G. Giraud, 2019).

Nel settore dei combustibili fossili, poi, oltre ai problemi di inquinamento si sta profilando con sempre più chiarezza anche il limite del “picco estrattivo”, calcolato all’incirca nel 2050 (vedi) con quello del petrolio già prossimo al traguardo. Questo significa che quando l’offerta quotidiana mondiale di petrolio avrà raggiunto il picco massimo perché non si può più aumentare la quantità di greggio estratta mentre la domanda quotidiana mondiale la supererà, il rincaro del petrolio sarà pesantissimo. Se poi avvenisse bruscamente potrebbe indurre una grave recessione mondiale.

Il fatto è che nei corsi di economia si impara che per produrre sempre di più sono necessarie due grandi categorie di fattori: risorse naturali dalle quali attingere, generando scarti, rifiuti, inquinamento, e forza lavoro e che il cuore del progresso tecnico e della crescita sono i guadagni di produttività, ovvero produrre di più con la stessa quantità di lavoro, indipendentemente dal fatto che un incremento di produttività che favorisca il consumatore, possa generare svantaggi per il lavoratore. Al riguardo l’economista Friedrich Taylor nella sua monografia L’organizzazione scientifica del lavoro del 1911, fece chiaramente intendere che per ottenere la più grande produzione al prezzo più basso possibile è necessario trascurare le esigenze del lavoro.

Benedetto XVI nel riflettere sul conflitto esistente tra la moderna visione su famiglia e identità sessuale da una parte e diritto naturale dall’altra, esprime una considerazione estensibile alla nostra riflessione, rilevando che: «È necessario che ci sia qualcosa come una ecologia dell’uomo, intesa nel senso giusto… Le foreste tropicali meritano, sì, la nostra protezione, ma non la merita meno l’uomo come creatura» (Benedetto XVI, Discorso alla Curia Romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi, dicembre 2008).

Gli fa eco Papa Francesco quando ci ricorda che: «chi vive per sfruttare la natura, finisce per sfruttare le persone e trattarle come schiavi» e che è necessario, piuttosto, diventare «custodi della casa comune, custodi della vita e della speranza… custodire noi, il creato, i nostri figli, i nostri nipoti e custodire il futuro» (Udienza generale, settembre 2020).

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Leonardo Salutati

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