Il male non è mai banale
di Leonardo Salutati · Nel 1961 la filosofa Hannah Arendt si recò a Gerusalemme come inviata della rivista The New Yorker per seguire il processo per crimini di guerra ad Otto Adolf Eichmann, il funzionario nazista responsabile operativo della Soluzione finale: lo sterminio degli ebrei, dei rom e dei sinti. La Arendt si aspettava di trovarsi al cospetto di un mostro, l’incarnazione della violenza umana, invece trovò un grigio funzionario, che corrispondeva perfettamente alla linea difensiva di Eichmann che lo dipingeva come un impotente burocrate, un semplice esecutore di ordini inappellabili, che non poteva quindi avere una diretta responsabilità nello sterminio massa. Eichmann agli occhi della Arendt apparve come una persona che non aveva niente di inquietante, «l’unica caratteristica degna di nota che si potesse individuare nel suo comportamento fu: non stupidità, ma mancanza di pensiero».
Nell’incapacità di pensare al valore morale dei propri atti congiunta alla capacità, insieme agli altri burocrati nazisti, di mostruose atrocità, la Arendt vide le caratteristiche del concetto di Banalità del male, che sarà il titolo del suo report da Gerusalemme pubblicato nel 1963, che generò diverse controversie che continuano ancora oggi.
Nel corso del tempo i critici della Arendt hanno fatto luce su alcuni errori storiografici della filosofa, a cominciare dal fatto che la Arendt non riuscì mai a spiegare perché, se erano così inconsapevoli, Eichmann e i suoi colleghi tentarono di distruggere le prove dei loro crimini di guerra. Ma, soprattutto, grazie al ritrovamento di più di 70 ore di registrazioni dell’intervista che Eichmann rilasciò in Argentina nel 1957 al giornalista olandese di provata fede nazista Willem Sassen, anche lui rifugiatosi oltreoceano, e alla ricostruzione del comportamento di Eichmann durante il nazismo, oggi è accertato che Eichmann non mancava minimamente di pensiero e che fu un personaggio diverso da quello che volle mostrare durante il suo processo a Gerusalemme.
Quello che si sedette davanti a Sassen era un Eichmann ben inserito nella comunità tedesca in Argentina. Un uomo freddo, glaciale, orgoglioso del suo ruolo di meticoloso stratega della deportazione nei campi di concentramento. Quando la voce delle sessioni di intervista si diffuse tra i nazisti espatriati in Argentina alcuni vollero assistervi. Di questi ultimi i nastri hanno catturato lo stupore, in quanto molti dei presenti trovarono difficile realizzare che sei milioni di ebrei furono davvero uccisi, credendo che fosse una bugia inventata dagli stessi ebrei.
Nei nastri si sente dire da Eichmann: «Mi si contorcono le budella a dire che abbiamo fatto qualcosa di sbagliato. No. Devo dirle in tutta sincerità che se dei 10,3 milioni di ebrei stimati da Korherr, (…) ne avessimo uccisi 10,3 milioni, allora sarei soddisfatto e direi “bene, abbiamo sterminato un nemico”». Dalle registrazioni si profila un Eichmann convintamente aderente all’ideologia razzista e antisemita e alla sua più consapevole esecuzione. Tra l’altro l’apparire come banale esecutore di ordini non era una mossa per ottenere clemenza, che comunque non ebbe, ma un tentativo da parte di una gerarchia sconfitta per continuare la guerra contro gli ebrei e per ridare una parvenza di legittimità a un programma che doveva proseguire.
Già nel 2011 nel suo La verità del male. Eichmann prima di Gerusalemme, risultato di una ricerca su una grande quantità di materiale di archivio, compresi i nastri e le trascrizioni di venticinque ore di registrazioni dell’intervista ad Eichmann, Bettina Stangneth, filosofa e storica tedesca, dimostrava che il gerarca nazista non era un semplice subordinato ed era tutt’altro che incapace di pensare.
Eric Voegelin, nel suo Hitler e i tedeschi la chiama «la stupidità al potere», resasi possibile grazie alla capacità manipolatoria di un gruppo di fanatici, esercitata su di un intero popolo, che non per questo può considerarsi esente da responsabilità, che riuscì nell’intento di far accettare una concezione falsa e rozza del formarsi e trasformarsi di un popolo attraverso il sangue e la razza, che affonda in profondità nel pensiero scientifico illuminista prima e darwinista poi, con l’accento totalizzante posto sulla lotta per la vita e per la morte di un gruppo umano contro un altro.