La rivoluzione della gentilezza
di Stefano Liccioli · Di solito quando pensiamo alla gentilezza ci vengono in mente le buone maniere. Qualcosa che apparentemente riguarda più un codice di comportamento che l’amore evangelico, come se essere cortesi con le persone fosse un atteggiamento meramente esteriore e di secondaria importanza rispetto al comandamento di Gesù di amarci gli uni gli altri.
Personalmente ho sempre pensato invece come la gentilezza, quando è una disposizione autentica dell’individuo, abbia la capacità di tradurre in gesti e parole concrete l’amore predicato da Cristo. A rafforzarmi in questa convinzione è stata un’affermazione dell’intellettuale francese Jean Bastaire che lessi alcuni anni fa e chi mi annotai per salvarla dai rischi dell’oblio:« La cortesia è la prima traccia del regno di Dio. Essa riposa sul riconoscimento dell’esistenza dell’altro. Non siamo noi soli a contare. L’altro conta come noi. Con l’altro dobbiamo trasformare l’indifferenza in comunione e l’emarginazione in rispetto. Se la cortesia o la gentilezza non fosse che un semplice codice di regole, sarebbe una ben magra cosa. In realtà essa è il tirocinio alla fraternità, al rispetto reciproco è un’educazione alla “misericordia”. Lasciarla perdere è una disfatta dell’Amore».
Ho trovato un bella consonanza tra queste parole di Bastaire, scomparso nel 2013, e quello che Papa Francesco ha scritto nella sua ultima enciclica “Fratelli tutti” esplicitando che un frutto dello Spirito Santo (cfr. San Paolo in Galati 5,22) è proprio uno stato d’animo non aspro, rude, duro, ma benigno, soave, che sostiene e conforta. Ha affermato il Santo Padre:« La persona che possiede questa qualità aiuta gli altri affinché la loro esistenza sia più sopportabile, soprattutto quando portano il peso dei loro problemi, delle urgenze e delle angosce. È un modo di trattare gli altri che si manifesta in diverse forme: come gentilezza nel tratto, come attenzione a non ferire con le parole o i gesti, come tentativo di alleviare il peso degli altri. Comprende il “dire parole di incoraggiamento, che confortano, che danno forza, che consolano, che stimolano”, invece di “parole che umiliano, che rattristano, che irritano, che disprezzano” » (FT 223). A volte siamo tentati di pensare che quando si tratta di aiutare gli altri quello che conta è la sostanza e non la forma. No, non basta la sostanza, a mio avviso, ci vuole anche una forma che rafforzi la sostanza. Occorre uno stile che sia coerente con le nostre buone intenzioni, una serie di attenzioni che accompagnino i nostri atti di carità.
Seguire la via della gentilezza è oggi ancor più importante perchè in un contesto frenetico come quello attuale, in cui «l’individualismo consumista provoca molti soprusi. Gli altri diventano meri ostacoli alla propria piacevole tranquillità. Dunque si finisce per trattarli come fastidi e l’aggressività aumenta» (FT 222).