La formazione dei candidati al ministero ordinato come educazione alla relazione. A proposito di due recenti pubblicazioni

620 500 Gianni Cioli
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di Gianni Cioli · Nel recentissimo Sussidio del Servizio Nazionale per la tutela dei minori della Conferenza episcopale italiana, La formazione iniziale in tempo di abusi, a cura di Amedeo Cencini e Stefano Lassi ho trovato alcuni spunti particolarmente stimolanti che riporto estesamente: «Nel cristianesimo tutto è relazione. Dio è Trinità, cioè comunione; la creazione esprime un Dio che addirittura fa esistere chi non è, per intessere con lui un dialogo; fede è fidarsi d’un Tu, a lui abbandonandosi; pregare è mantener viva la relazione che fa vivere, e se il peccato distrugge relazione e capacità di relazione, salvezza è il Creatore che non vuol perdere il contatto con la creatura, e per questo elimina ogni distanza e ristabilisce il rapporto con essa. La vita d’ogni vivente è relazione, la sessualità è relazione, e l’uomo è essere non solo razionale, ma anche e soprattutto relazionale…; ma è relazione anche la vocazione, così come lo sono il Vangelo e ogni annuncio e catechesi, ogni ministero e ogni sacramento. Persino la verità è relazionale, perché si scopre meglio assieme e tende a esser condivisa creando a sua volta relazione; pure la libertà “è un rapporto a due…, non è qualcosa che l’uomo ha per sé, ma per gli altri…, perché l’altro mi ha legato a sé”. E cos’è la vita eterna se non relazione per sempre, che comincia ora e non finirà mai…? ».

D’altra, parte ci avverte il sussidio: «Se è vero […] che la relazione esprime la natura umana (e divina), è pur vero che non viene naturale all’uomo vivere la relazione per ciò ch’essa significa; c’è qualcosa che spinge l’uomo a chiudersi in se stesso o ad aprirsi alla relazione solo apparentemente, ingannando l’altro e se stesso».

È il mistero della concupiscenza che l’antropologia cristiana ha ben presente. Si tratta di una realtà che si profila come insidioso ostacolo alla libertà d’amare e di cui dobbiamo essere avvertiti.

Per cui, continua il Sussidio: «Sarà dunque necessario partire da una comprensione corretta della maturità relazionale, intesa come la capacità/libertà di uscire da sé per mettere l’altro, col suo mistero di vita e di morte, di gioia e sofferenza, al centro della propria vita, e – assieme all’altro – mettere Dio al centro della relazione stessa.

Insomma, la maturità relazionale come un duplice autodecentramento: in favore del tu umano, e poi del Tu divino».

Per questo: «Occorre, allora, prestare attenzione nel tempo della prima formazione a chi in qualche modo sembra evitare la relazione, in nome d’una malintesa idea di spiritualità, oggi pericolosamente diffusa in una certa generazione giovanile (che sembra difendersi dalla relazione o cerca solo quella virtuale), o in vista d’una perfezione di stampo sostanzialmente individualistico (per la quale la relazione è solo un accidens); così come è necessario, d’altro canto, correggere da subito un certo spontaneismo relazionale, senza criteri di riferimento e alla fine senza senso, ove la relazione è di fatto cercata per metter se stessi al centro del rapporto con l’altro, per servirsene, senza più alcuna apertura autodecentrante e autotrascendente verso il mistero. Allora l’abuso è già in qualche modo in atto» (Servizio Nazionale Per La Tutela Dei Minori Della Conferenza Episcopale Italiana, Sussidio 3. La formazione iniziale in tempo di abusi e per giovani in formazione per formatori al presbiterato e alla vita consacrata, Pubblicato online 2021, pp. 31-32.).

A proposito di educazione alla relazione ho trovato particolarmente stimolante anche la lettura del libro collettaneo a cura di F.J. Insa Gómez, Amare e insegnare ad amare. La formazione dell’affettività nei candidati al sacerdozio (Edusc, Roma 2018). Al di là del valore dei singoli contributi è interessante la visione che emerge dall’articolazione dei contributi stessi: quella dell’intrinseco legame che esiste e si alimenta in modo circolare fra vita teologale (esercizio della fede, della speranza e della carità) e disposizione alla castità, ovvero alla gestione del desiderio attraverso l’educazione della ragione, dei sentimenti, delle passioni e delle pulsioni in modo tale da liberare la potenzialità relazionale e fecondante insita nella sessualità dell’essere umano. La castità va ovviamente letta come concretizzazione della virtù temperanza e quindi collocata nell’organismo delle virtù cardinali (prudenza, giustizia fortezza e temperanza) a loro volta connesse con la prospettiva psicologica, a motivo della loro essenziale relazione con la concretezza. Queste virtù ci sfidano a stare con i piedi per terra e quindi a diffidare di chi giudica il ricorso alla psicologia e alla psichiatria come un riduzionismo. Come pure ci sfidano a non separare l’esercizio della carità teologale dalla gioia dell’amicizia umana che è importante imparare a coltivare. Senza una paziente, concreta e umile attenzione ai bisogni psicoaffettivi di chi è in discernimento vocazionale, disposta onestamente a fare realisticamente i conti con le ombre e le immaturità segnano cammino di tutti noi, la cosiddetta “maturità umana”, tanto evocata nei documenti della chiesa sui seminari, rischia di risultare come l’araba fenice nella lirica di Metastsio: «che ci sia ciascun lo dice, ove sia nessun lo sa» (Metastasio, Demetrio (1731), II.3).

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