«Il mio viaggio con padre Alexander» L’esperienza della vita e della teologia nei diari di Juliana Schmemann

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di Dario Chiapetti · Sono pagine dense di storia, di storia della teologia e di storia dello spirito quelle del diario di Juliana Osorgin (1923-2017) (Il mio viaggio con padre Alexander, Lipa, Roma 2021, 111 pp., 12 euro), moglie di Alexander Schmemann (1921-1983) – il grande teologo ortodosso che ha dato un prezioso contributo al rinnovamento della teologia orientale, oltre che alla vita ecclesiale ortodossa americana, concentrandosi soprattutto sulla liturgia, l’ecclesiologia e la storia della Chiesa – che il lettore italiano ha tra le mani, tradotte dall’originale russo.

In non molte pagine si è immersi nelle vicende di Juliana e Alexander, dei loro genitori, nonni, figli e nipoti, che trasportano chi legge dall’Europa dell’est della Prima Guerra Mondiale alla Francia della Seconda Guerra Mondiale e del dopo guerra agli Stati Uniti d’America quasi dei giorni nostri. Sono presentati con toni vivi i drammi delle guerre, le difficoltà dell’emigrazione, ma anche la luce che scaturisce dalla fede, vissuta nella famiglia e nella liturgia, oltre che il realizzarsi, in mezzo a queste circostanze, dei disegni di Dio, sorprendentemente rilevanti per la Chiesa e il mondo.

Juliana racconta di sé, della sua nascita in Germania da una famiglia nobile russa, emigrata per la guerra civile russa, che vanta tra i loro avi santa Juliana di Lazarevo del XVII secolo. Narra di quando, ancora piccola, si trasferì con la famiglia a Parigi, in un sobborgo presso una chiesa, il cui sacerdote era il nonno. Ricorda la sua formazione presso un collegio cattolico e il conseguimento del baccalaureato e della licenza in lettere alla Sorbona. Ripercorre l’episodio di quando, a 17 anni, presso l’Istituto di teologia Saint Serge, dove si recò per fare visita a suo zio, uno dei fondatori, incontrò il diciannovenne Alexander, nato in una famiglia russa di origine tedesche e arrivato in Francia dall’Estonia già da piccolo, il quale aveva iniziato lo studio della teologia, dopo anni di lenta, travagliata, ma progressiva e profonda maturazione spirituale. Racconta poi di quando nel 1943 si sposarono e nel 1945 Alexander divenne sacerdote. Rievoca come all’Istituto Saint Serge, dove questi redigeva il dottorato e muoveva i primi passi nell’insegnamento, vi erano prestigiosi insegnanti, come Sergej Bulgakov, ma anche altri, tra i vertici, che non davano spazio a quelle nuove figure che avrebbero rotto alcuni equilibri. Riferisce di come, all’epoca, il professor Georgij Florovskij, emigrato negli Stati Uniti, fermamente convinto dal potenziale dell’azione missionaria dell’Ortodossia in America, invitò Alexander ad insegnare al piccolo seminario St Vladimir a New York di cui era a capo. Coinvolgente è la parte che informa sulla scelta di Schmemann di accettare, rifiutando una proposta dell’Università di Oxford, e sul trasferimento, con Juliana e i tre figli che nel frattempo erano nati, mosso dal desiderio di avere una vita attiva come insegnante. Ella racconta con ammirazione di come Alexander si spendesse intensamente per rendere il Seminario una realtà accademica altamente qualificata, oltre che un luogo di vita fraterna. Riferisce della vita economicamente precaria ma anche intensa per quanto concerneva lo sviluppo del Seminario, così come pure delle incomprensioni e degli scontri tra suo marito e Florovskij che portarono quest’ultimo a ritirarsi. Ricorda poi come Alexander si buttò a capofitto nella sua attività teologica e didattica, divenendo un punto di riferimento per l’Ortodossia americana, di come si adoperò per l’ottenimento dell’autocefalia dalla Chiesa ortodossa russa, che dopo molte difficoltà, nel 1970, arrivò, e di come trascinava in un’intensa amicizia con sé non credenti, ebrei ed ex marxisti. Ella rammenta inoltre come, oltre a tutto ciò, vi fu l’impegno trentennale con Radio Liberty, per la quale egli trasmise innumerevoli sermoni in Unione Sovietica, ascoltati e apprezzati, tra gli altri, da Aleksandr Solženicyn, col quale divenne grande amico. Juliana confessa che la famiglia si sentì finalmente a casa grazie allo spirito accogliente della vita cristiana in America e giunge così all’ultima fase della vita di Alexander, caratterizzata dall’impegno per la famiglia – nel frattempo ingrandita dai nipoti, dei quali curò la formazione cristiana – e dall’esperienza della malattia (un tumore ai polmoni che aveva generato metastasi al cervello) che lo trasferì in «un altro livello di esistenza». Il diario termina con le pagine, che trapelano profondo amore, sulla morte di Alexander nel 1983 e con l’ultimo testo che egli compose per la radio, che rivela lo spirito con cui egli la visse: il suo mirabile Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace.

Ciò che vividamente emerge da questo diario è quella profonda unitarietà della vita – che compone affetti familiari, vicissitudini storiche, personali, inquietudini, difficoltà, aspirazioni, impegno teologico, ecclesiale, pastorale – che si fa spazio nella vita nello Spirito e che la liturgia prefigura e anticipa come memoria del suo stato definitivo del regno.

Tutto è carico di disarmante umanità. La teologia, per Alexander Schmemann, altro non era che l’unica cosa che, forse, dovrebbe essere: l’esposizione, più o meno sistematica, dei contenuti dogmatici appresi nell’esperienza personale come Chiesa, e riconoscibile nel suo statuto servile nei confronti della comunità cristiana e della famiglia umana.

«Un giorno Alexander stava camminando lungo una strada di Harlem quando un mendicante gli si avvicinò. Era un grosso uomo di colore e chiaramente una persona gentile. “Padre, la prego, vorrei parlarle”. Alexander allungò la mano alla tasca, gli porse degli spiccioli e gli disse di comprarsi un caffè e del cibo. “No, no, padre”, disse l’uomo, “Non mi servono i suoi soldi, voglio solo parlare con lei”. Allora Alexander lo portò in un caffè e gli chiese: “Dunque, di cosa vuole parlare?”. Più tardi Alexander raccontò che c’era una premura nella sua voce. “Padre, mi spieghi la Santissima Trinità. Chi sono e perché sono tre?”. Alexander non dimenticò mai questa conversazione. La considerava l’incontro teologico umano e divino più significativo della sua vita».

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Dario Chiapetti

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