di Francesco Romano • La relazione tra il voto di obbedienza che obbliga il religioso “a sottomettere la propria volontà ai legittimi superiori che fanno le veci di Dio quando comandano secondo le proprie costituzioni” (can. 601) e la libertà che gli è “riconosciuta” per quanto riguarda il sacramento della Penitenza e la direzione della coscienza (can. 630 §1), ci porta a riflettere sul fòro interno della coscienza e le possibili implicazioni nella vita consacrata. Sarà inoltre da non sottovalutare la sfumatura linguistica di non irrilevante significato che è resa presente con la distinzione tra manifestazione dell’animo e manifestazione della coscienza (can. 630 §5).
La pratica della manifestazione della coscienza va affermandosi fin dagli albori del monachesimo come apertura dell’animo all’abate, al superiore o al padre spirituale, vista come strumento per la crescita spirituale nell’esercizio delle virtù e il superamento delle difficoltà della vita consacrata.
Con l’inizio della vita cenobitica secondo la regola di Basilio il Grande (†379) viene ammessa l’esposizione delle proprie mancanze al praepositus, cioè all’abate, quale guida spirituale. Nella regola di S. Benedetto (†540) l’abate deve conoscere lo stato dell’anima di ciascun monaco perché possa averne cura e accompagnarlo nella via della perfezione, soprattutto quando si tratta di peccati occulti, ma anche conoscere le buone disposizioni e i frutti della grazia. La manifestazione della coscienza all’abate è segno di totale dipendenza e di umiltà dei monaci quando è fatta fuori dalla confessione.
A partire dall’ottavo secolo la manifestazione della coscienza, passo dopo passo, finisce per identificarsi con la manifestazione dei peccati e in alcuni casi si equivoca nell’uso del termine confessione benché questa si mantenga distinta. La necessità di avere sacerdoti nei monasteri per amministrare l’assoluzione sacramentale fa sì che gli abati chiedano l’ammissione all’ordine sacro di alcuni monaci perché provvedano alla formazione spirituale dei loro confratelli secondo il proprio carisma e tradizione senza dover ricorrere a sacerdoti esterni. In questo modo la manifestazione della coscienza finisce per confluire e confondersi con il sacramento della confessione.
Fino al sedicesimo secolo la regola benedettina influenza le costituzioni degli ordini religiosi e la manifestazione della coscienza finisce per restare indistinta dalla confessione sacramentale. Il Concilio Lateranense IV nel 1215 dispone che i fedeli debbano confessarsi sotto pena di invalidità con il “sacerdote proprio”, cioè il parroco proprio e per i religiosi il proprio superiore procurando il cumulo delle due cariche di confessore e direttore spirituale con il rischio di violare il sigillo sacramentale o di commettere abusi nell’utilizzare le conoscenze per il governo esterno dei sudditi.
Nella vita religiosa della Compagnia di Gesù entra l’obbligo della manifestazione della coscienza da farsi al superiore o al padre spirituale nella confessione per il miglior governo dei sudditi e dell’istituto, come esigenza della vita apostolica. Tale manifestazione della coscienza finirà per essere proibita con la promulgazione del Codice di Diritto Canonico del 1917, ma già con il decreto “Sanctissimum” del 26 maggio 1593 Papa Clemente VIII aveva proibito ai superiori di obbligare i propri sudditi di confessarsi con loro e di ricevere nel fòro interno sacramentale la manifestazione della coscienza che era finita per diventare come una confessione fatta al superiore fuori dal sacramento.
Il Papa Leone XIII approva nel 1890 il decreto della Sacra Congregazione dei Vescovi e dei Regolari “Quemadmodum” dove deplora che i superiori laici inducano direttamente o indirettamente i loro sudditi alla rivelazione intima della loro coscienza che corrisponde alla confessione, ma permette che questi liberamente e spontaneamente manifestino il loro animo per ricevere consiglio e aiuto nelle difficoltà. Il decreto “Quemadmodum” è la fonte del can. 530 del Codex 1917 che proibisce ai superiori religiosi di indurre i sudditi a manifestare loro la propria coscienza lasciando la disponibilità di aprirsi con filiale fiducia solo ai superiori se sono anche sacerdoti per manifestare i dubbi e le afflizioni della propria coscienza. In questo modo il can. 530 con le parole “expedit […] si sint sacerdotes” fa una chiara distinzione tra superiori sacerdoti e superiori laici permettendo ai loro sudditi di esporre questioni di coscienza solo se sacerdoti.
Si va quindi diffondendo l’idea che la normativa canonica proibisca l’apertura dell’animo dei sudditi con i loro superiori (can. 518 §3 Codex 1917) ai quali debba competere solo il governo esterno della comunità e garantire l’osservanza della disciplina. Tuttavia il can. 530 §2 del Codex 1917 non proibisce al suddito di poter aprire liberamente al superiore il proprio animo. In questo caso non si ha violazione della propria intimità, ma apertura del cuore perché possa ricevere luce sull’osservanza della vita religiosa, l’inserimento nell’istituto, l’osservanza dei consigli evangelici, l’orazione ecc. Un’apertura dell’animo che restando nell’ambito del fòro esterno non comporta la violazione della propria intimità con la manifestazione della coscienza o la rivelazione dei peccati, ma al contrario offre anche al superiore la possibilità di operare il giusto discernimento e al suddito di farsi conoscere e guidare.
L’attuale Codice di Diritto Canonico presenta la relazione di fiducia tra religioso e superiore di cui al can. 630 §5 in stretta continuità con il previgente Codex del 1917. Se da un lato si proibisce ai superiori di coartare il diritto originario alla debita libertà dei religiosi per quanto riguarda il sacramento della Penitenza e la direzione della coscienza (can. 630 §1), dall’altro i religiosi vengono esortati a rivolgersi ai superiori con fiducia per aprire il proprio animo con spontanea libertà, mentre è fatto assoluto divieto ai superiori di indurli a manifestare la propria coscienza in qualunque modo (can. 630 §5).
L’apertura dell’animo non corrisponde alla manifestazione della coscienza che il legislatore si preoccupa di tutelare per evitare abusi. Tra essi intercorre la distanza che c’è tra il fòro esterno, il fòro interno sacramentale ed extrasacramentale o fòro della coscienza quali ambiti che corrispondono rispettivamente al superiore anche se laico, al confessore e al direttore spirituale.
La manifestazione della coscienza è la libera rivelazione di tutto ciò che per sua natura è interno e non può essere conosciuto se non per volontà della persona. Lo stretto carattere confidenziale del fòro interno si coniuga con il diritto di cui gode ciascuna persona di tutelare la propria intimità (can. 220).
L’apertura dell’animo è invece la manifestazione dei propri sentimenti, delle proprie inclinazioni, del mondo interiore, ma senza oltrepassare e invadere l’ambito della coscienza, ovvero il rapporto con Dio e l’agire dell’uomo nella prospettiva del bene e del male. Il limite tra apertura dell’animo al superiore e manifestazione della coscienza è sottile e spesso l’oggetto coincide, ma è segnato dalla diversa finalità del religioso nella ricerca di aiuto a vivere una rinnovata fedeltà secondo la chiamata dello Spirito che potrebbe spingersi fino all’esame intimo della coscienza. La mens del legislatore trova riscontro in un caso analogo quando esorta gli alunni del seminario ad avere un proprio direttore spirituale “scelto liberamente, al quale possa aprire con fiducia la propria coscienza” (can. 246 §4). Anche nel caso che riguardi solo l’ambito del fòro interno non sacramentale viene sottolineata la piena libertà del religioso di scegliere a chi indirizzarsi per la direzione della coscienza (can. 630 §1)
Per quanto riguarda il rapporto tra religiosi e superiori il can. 630 §5 non esclude che il religioso possa rivolgersi ai propri superiori per aprire il proprio animo, ma la preoccupazione del legislatore è di tutelarlo per evitare che il superiore si addentri nella sua coscienza come se ci fosse un’ultima frontiera da abbattere e un ambito della persona da espugnare. Non è infrequente, infatti, che oggi si venga a conoscenza con maggiore facilità di metodi esercitati all’interno di certi enti associativi come sistema di controllo e di potere che va sotto il nome di dominio delle coscienze. Tutto questo non ha nulla di ecclesiale.
Se da un lato si afferma in modo categorico il diritto del religioso di tutelare la propria intimità e non essere indotto dal superiore a manifestargli la propria coscienza, dall’altro il can. 630 §5 esorta il religioso a nutrire fiducia verso il superiore come passaggio necessario per aprirgli il proprio animo ed essere aiutato e accompagnato. Si tratta di reciproca fiducia che potrà affermarsi se il superiore per primo si rende credibile nello svolgimento della sua funzione di magister spiritus e nell’esercizio della sua autorità che gli è data a beneficio della santificazione di ciascun membro. Resta fermo che il superiore non può obbligare il religioso a qualunque forma di rivelazione sia come apertura dell’animo che come manifestazione della coscienza.
Rispettando l’ambito di competenza del confessore e del direttore spirituale, il can. 630 §5 esorta il religioso a guardare con fiducia al superiore e ad aprirgli il proprio animo, cioè quel mondo che, pur non riguardando il fòro interno, si va disvelando in un dialogo personale e al tempo stesso aiuta il superiore a svolgere il compito di responsabile e guida spirituale e apostolica della comunità dei fratelli.
Apertura dell’animo e manifestazione della coscienza non sono sinonimi e il legislatore lo sottolinea mettendo la seconda sotto la specifica tutela giuridica in forma di divieto rivolta ai superiori. Questo vuole essere segno di come la Chiesa intenda il rapporto tra superiore e suddito e l’esercizio della potestà d’ordine e di governo.