La «monarchia repubblicana»
di Andrea Drigani • Com’è noto esiste un rapporto tra il sistema politico ed il regime giuridico-istituzionale di uno Stato, con la possibilità di influenze reciproche sia complementari che conflittuali. Per sistema politico si può intendere l’opera e l’attività dei partiti politici, delle organizzazioni sindacali o imprenditoriali, di associazioni o gruppi culturali anche connessi alle proprietà di mezzi della comunicazione sociale. Il regime giuridico-istituzionale si riferisce, soprattutto, alla legge fondamentale dello Stato, al suo ordinamento interno anche per le autonomie locali, alle regole elettorali. In Italia, con la Costituzione del 1948, venne fatta la scelta, con ampio consenso, della Repubblica parlamentare. Si optava, cioè, per la centralità del Parlamento (Senato della Repubblica e Camera dei Deputati) circa la vita del regime giuridico-istituzionale. Alle Camere sono attribuiti una serie di poteri decisori essenziali, quali quello dell’approvazione delle leggi (art.70), della necessari concessione della fiducia al Governo perché esso possa esistere (art.94), all’elezione del Presidente della Repubblica (art.83). La scelta per una Repubblica parlamentare fu, come si è notato, largamente condivisa dall’Assemblea Costituente, anche se un giurista e deputato Piero Calamandrei (1889-1956) aveva espresso una sua preferenza per la Repubblica presidenziale, che, a quell’epoca, aveva come pressoché unico modello quello degli Stati Uniti d’America. La prospettiva della Repubblica presidenziale rimase solo oggetto di studio della politologia. Vi fu qualche vago richiamo, forse strumentale, da parte dell’estrema destra, ma anche proveniente da sinceri democratici ed antifascisti come Randolfo Pacciardi (1889-1991), Mauro Ferri (1920-2015) e Giovanni Gronchi (1887-1978). In effetti il regime giuridico parlamentare, appariva ben fondato in quanto poggiava sulla presenza dei partiti politici: DC, PCI, PSI, PSDI, PRI, PLI. I partiti infatti erano una forma associativa che coinvolgeva molte persone, non soltanto in modo clientelare (rischio purtroppo sempre presente), ma per favorire la partecipazione dei cittadini, con il ruolo delle sezioni locali, nonché alle scelte legislative ed alle elaborazioni programmatiche. Ciò era anche una delle conseguenze della caratterizzazione ideologica o perlomeno teoretica dei partiti. I partiti politici così strutturati, portavano, con le elezioni, le loro idee ed i loro uomini in parlamento. Questa forma «classica» dei partiti, dopo la cosiddetta fine delle ideologie, si è dissolta, lasciando il posto, attraverso un drastico ridimensionamento organizzativo, a dei partiti che hanno assunto ormai il ruolo di comitati elettorali sotto la guida di un «leader» più o meno carismatico. Questa radicale trasformazione dei partiti politici è un fatto che, al di là di ogni giudizio, ha portato ad un indebolimento della Repubblica parlamentare. Per uscire da una situazione di oggettiva crisi politica e giuridica, è alquanto opportuno riprendere in considerazione l’ipotesi della Repubblica presidenziale o semipresidenziale sull’ esempio francese. E’ da notare che l’unica rilevante e positiva riforma istituzionale, in Italia, è stata l’elezione popolare diretta dei sindaci introdotta nel 1993, con conseguenze che vengono ritenute assai proficue. Le riforme costituzionali che sono state proposte e respinte: quella Berlusconi del 2005 e quella Renzi-Boschi del 2016, si collocavano ancora nell’ambito di una Repubblica parlamentare, aggravandone i suoi limiti ed i suoi difetti. Il politologo francese Maurice Duverger (1917-2014) militante del partito socialista e che fu deputato europeo eletto in Italia, nelle liste del PCI, è stato uno dei grandi sostenitori dell’introduzione del regime semipresidenziale in Francia e fu assertore anche da un punto di vista concettuale di tale scelta denominata paradossalmente, ma molto efficacemente «monarchia repubblicana». Il sistema francese che si specifica sull’elezione diretta del Presidente della Repubblica, con ballottaggio, analogamente alla elezioni con collegi uninominali per l’Assemblea Nazionale, e nei rapporti eventualmente «coabitativi» tra il Capo dello Stato ed il Parlamento è quanto mai interessante. Francesco Cossiga (1928-2010), che ben intravide la crisi dei partiti «classici», dopo la caduta del muro di Berlino, e la conseguente crisi della centralità del Parlamento espresse apprezzamento per l’ipotesi presidenzialista. Mi pare difficile che, nell’attuale contesto italiano, il sistema politico possa da solo autoriformarsi senza l’accompagnamento di una revisione costituzionale che introduca una qualche forma di «monarchia repubblicana».