di Giovanni Campanella · Nei primi giorni di ottobre 2021, la casa editrice Einaudi ha pubblicato, all’interno della collana “Gli struzzi”, un libro intitolato I Greci e l’arte di fare i conti. Moneta e democrazia nell’età di Pericle e scritto da Giovanni Marginesu.1
«Giovanni Marginesu insegna Storia della Grecia antica all’Università di Sassari, a due passi dallo splendido Museo Archeologico della città. Si è addottorato all’Università di Pisa e formato nella Scuola Archeologica Italiana di Atene. Ha lavorato sulle iscrizioni giuridiche a Creta, isola dove ritorna sempre» (terza di copertina).
In questo saggio, l’autore ci informa quanto fosse importante già all’epoca di Pericle (V secolo a. C.) essere trasparenti e precisi nella gestione della “cosa pubblica” e soprattutto nella gestione dei conti pubblici. Dicono che in famiglia tutti si lamentassero dell’avarizia di Pericle, ma che al contrario gli Ateniesi gli fossero ben grati quando esponeva loro con precisione – con acribia si comincia a dire – i rendiconti delle spese di denaro pubblico per una guerra o un monumento o un’impresa di conquista. Già allora l’arte di tenere i conti non era solo una questione di matematica ma anche di etica e, addirittura, di estetica. Infatti, Marginesu ci narra che perfino i rendiconti venivano incisi con raffinata maestria ed esposti sull’acropoli per rendere edotti i cittadini sui precisi impieghi di ogni singolo flusso monetario. Edifici, monumenti, economia, guerre, commerci dipendono tutti da questi flussi. Questi flussi sono anche all’origine di varie vicende che l’autore ci racconta: la protezione del tesoro della Lega delio-attica, lo scandalo finanziario relativo alla famosa statua crisoelefantina di Atena, che costò troppo e che quasi rovinò per sempre Fidia e la sua fama, le guerre e i prestiti a interesse che gli dèi, ossia i tesori dei loro santuari, facevano continuamente ad Atene. I documenti contabili erano anche presentazioni di Atene davanti a sé e al mondo. Lo stesso Pericle amava essere ritratto mentre faceva di conto.
Nel libro si fa riferimento anche a termini finanziari che fanno drizzare l’orecchio a chi ha letto qualche pagina di Vangelo, anche se tra Gesù e il contesto descritto da Marginesu ci sono più di cinque secoli di distanza. L’unità monetale fondamentale dell’epoca aurea di Atene è la drachma. L’obolo valeva un sesto di dracma. Cento dracme fanno una mina (la mente corre appunto alla parabola delle mine). Seimila dracme fanno un talento (sorgono tante reminiscenze evangeliche tra cui la parabola dei talenti e la parabola del servo spietato). Millequattrocento talenti è la spesa dell’assedio di Samo e anche il costo medio annuale della guerra del Peloponneso. L’intero Partenone costò 500 talenti mentre la statua crisoelefantina di Atena ne costò 1.000 (infatti per quest’ultima spesa sorse uno scandalo). Fra il 433/32 e il 423/22 a. C., ossia in dieci anni, i tesori sacri prestarono ad Atene ben 5.599 talenti. Pur sapendo che tempi e luoghi sono molto diversi, impallidiamo un po’ quando Gesù in una parabola ci racconta che un solo piccolo singolo servo doveva al padrone 10.000 talenti! È un po’ difficile rifondere Dio di tutto quello che ci ha dato.
Come magistralmente mostrato nel testo di Marginesu, l’etica finanziaria ha radici con ramificazioni molto lontane nel tempo.