Una virtù fraintesa e banalizzata: La castità

di Gianni Cioli · Il direttore di Il Mantello della giustizia mi ha invitato ad affrontare il tema della virtù della castità.

Si tratta, in verità, di un argomento non facile perché ci troviamo di fronte a una virtù fraintesa e fortemente banalizzata nel sentire comune. Infatti la castità è per lo più intesa come «la condizione di chi sceglie di astenersi dall’avere rapporti sessuali, per motivi etici, religiosi e/o filosofici» (vedi).

Collocandosi nel solco della riflessione di Pieper si può forse giungere ad affermare che la castità ha un carattere analogico ed assume modalità differenti nei differenti stati di vita e nelle fasi dell’esistenza di una persona, o, per usare un concetto teologicamente caratterizzato, nei vissuti delle diverse vocazioni. Ma l’analogato principale a partire dal quale comprendere il senso e le articolazioni di questa virtù, non sarebbe tanto, come i più ritengono, quello della vocazione verginale ma piuttosto quello della vocazione coniugale.

A questo proposito mi permetto di riproporre una riflessione già a suo tempo esposta proprio attraverso le pagine questa rivista: «Il senso della vita nella visione cristiana è il dono di sé. La vocazione è il percepire la propria vita come una chiamata al dono sé. L’amore coniugale nella sua inscindibile unità dei suoi significati, unitivo e procreativo, è il caso serio in cui si afferma o si smentisce la verità della vita come dono di sé […]. Se non si è capaci di riconoscere il matrimonio e quindi la sessualità come vocazione al dono, ogni altra ipotesi di vocazione perde di senso. Lo stesso essere sessuato (e il piacere connesso con l’esercizio della sessualità) è la cifra, potremo dire, della vocazione dell’essere umano al dono di sé. Ma, se non si riconosce che l’esercizio della sessualità comporta una grandissima responsabilità perché connesso, oltre che al rispetto dei sentimenti delle persone, al dono della vita, lo stesso esercizio della sessualità (con il piacere connesso) anziché occasione ed espressione di dono può divenire occasione ed espressione di radicale egoismo.

Il vizio della lussuria ovvero l’elusione della castità, ci ricorda ancora Pieper, comporta sempre anche un nocumento alla giustizia (J. Pieper, Sulla temperanza, pp. 33-35). Potrebbe essere questa una considerazione da cui partire per riflettere sullo strabismo della nostra cultura che, da una parte, si mostra sempre più sensibile al valore del rispetto della persona con la condanna di ogni genere di molestie nella sfera sessuale, dall’altra prova un crescente imbarazzo di fronte di fronte all’idea di possibili limiti invalicabili nell’esercizio della sessualità. Mi si potrebbe obiettare che il senso del limite è invece ben presente nella nostra cultura, nell’ambito dell’etica sessuale, nell’imperativo che si deve sempre rispettare il principio del consenso del partner. Ma, mi domando, è realistico aspettarsi facilità nel rispettare il limite del consenso altrui, nell’ambito di una cultura che non educa all’autocontrollo sotto tutti gli altri rispetti? Pensiamo al danno che inevitabilmente comporta il proliferare della pornografia su internet, accessibile con estrema facilità anche ai minori, nell’indifferenza generale. E quanta violazione di dignità e di consenso si può presumere che possa proliferare dietro la diffusione della pornografia in rete? Parlare di educazione alla castità a partire da questa prospettiva forse può risultare una cosa seria.