In margine ad un libro di Francesco Benigno e Vincenzo Lavenia

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di Gianni Cioli · Recensione a Francesco Benigno – Vincenzo Lavenia, Peccato o crimine. La Chiesa di fronte alla pedofilia, (I Robinson. Letture), Gius. Laterza & Figli Spa, Bari-Roma 2021, pp. 284, € 20,00.

Francesco Benigno è titolare della cattedra di Storia moderna alla Scuola Normale Superiore di Pisa, a cui è pervenuto dopo avere insegnato nelle università di Catania, Messina e Teramo e come visiting professor in varie università straniere. Ha scritto sui metodi e i concetti della storia, sulla politica europea della prima età moderna, sul crimine organizzato e sul terrorismo. Vincenzo Lavenia insegna Storia moderna all’Università̀ di Bologna. Nelle sue ricerche e nella sue pubblicazioni si è occupato soprattutto di storia della Chiesa e di storia del comportamento sessuale.

Insieme hanno pubblicato, per gli Editori Laterza, il saggio Peccato o Crimine. La Chiesa di fronte alla pedofila, libro che si segnala per una duplice qualità: contenutistica e interpretativa. Benigno e Lavenia offrono infatti, in primo luogo, una indagine storica accurata sul fenomeno degli abusi sessuali nei confronti di minori da parte del clero cattolico, dall’antichità ai nostri giorni (quindi non solo sulla problematica della pedofilia in senso stretto, che andrebbe inquadrata come un disturbo mentale relativo a un interesse di tipo prevalentemente sessuale nei confronti di bambini e bambine di età prepuberale); i due autori propongono, in secondo luogo, una chiave interpretativa utile a spiegare il fenomeno dell’impressionante progressione dell’emergere di tale piaga in tempi recenti, e a comprendere, al contempo, le ragioni della difficoltà, da parte della Chiesa, ad affrontare il relativo scandalo, gestendo adeguatamente il problema.

La tesi chiave del libro si condensa nel titolo: “Peccato o crimine”. Nell’opinione pubblica e nelle legislazioni del mondo occidentale infatti, secondo gli autori, si sarebbe profilato sempre più nettamente l’orientamento a definire la pedofilia (e in genere l’abuso sessuale su un minore) come un crimine contro la persona, uno dei crimini peggiori e più irrimediabili per gli effetti devastanti che produce sulle vittime; mentre nella sensibilità della Chiesa si sarebbe mantenuta la tendenza a considerare la pedofila (come l’abuso sessuale in genere) piuttosto come un peccato, un atto cioè, per definizione perdonabile, ovvero rimediabile, focalizzando l’attenzione sul peccatore piuttosto che sulla vittima; insomma, una caduta da cui ci si può rialzare, in virtù della grazia sacramentale, del retto proposito e della penitenza. La differenza di paradigma interpretativo fra la società civile ed ecclesiastica circa il fenomeno dell’abuso sui minori, sarebbe alla base di molte risposte inadeguate al problema da parte delle autorità ecclesiastiche e costituirebbe un caso emblematico della difficoltà di adattarsi al mutamento storico da parte della Chiesa.

L’impianto metodologico del libro, che appare particolarmente interessante, emerge con chiarezza dalla singolare articolazione delle parti e dei capitoli, nella quale si può, fra l’altro, distinguere chiaramente l’apporto dei due autori. Vi è infatti una prima parte, relativamente breve, articolata in paragrafi e intitolata L’emergere del dramma (pp. 4-92), che ripercorre la progressiva ed impressionante emersione del fenomeno della pedofilia nella Chiesa cattolica, a partire dal 1985 negli Stati Uniti fino alle denunce più recenti, e nella quale già si profila la tesi centrale del libro; vi è poi una seconda parte, molto ampia, articolata a sua volta in quattro capitoli, che si intitola Sessualità, clero e minori (pp. 93-231) e che offre una indagine storica accurata sul problematico rapporto di una parte del clero con la sessualità, sconfinato talora nell’abuso sui minori (ma dall’indagine emerge che il problema tradizionalmente percepito in ambito ecclesiastico fosse più quello del peccato contro natura, ovvero della sodomia, che non quello dell’abuso su un minore), a partire dall’antichità fino al Novecento, passando per la Controriforma e l’affermarsi della modernità; vi è infine una parte dedicate alle conclusioni, articolata in due paragrafi e intitolata Un salto di paradigma (pp. 233-260). La prima parte e le conclusioni sono state curate da Francesco Benigno, mentre l’ampia seconda parte è opera di Vincenzo Lavenia, ma il tutto percorso risulta, alla fine, coerente e funzionale a condurre il lettore di fronte all’idea che, come si chiarisce nelle conclusioni, la Chiesa, attraverso la devastante esperienza dello scandalo della pedofilia, stia facendo i conti con una sorta di paradigm shift ancora da metabolizzare: «Sulla base di quanto si è fin qui messo in evidenza», afferma infatti Benigno nell’inizio dell’ultima parte, «lo scandalo della pedofilia si spiega in modo affatto diverso da come abitualmente si ritiene. Esso è stato originato, come si è visto, da una divaricazione, da un crescente distacco tra la morale cattolica, incentrata sul concetto di peccato, e la nuova sensibilità dell’opinione pubblica al tema dei diritti della persona, basata su una difesa di coloro che, in condizioni di inferiorità e di vulnerabilità, vivono situazioni di sofferenza, e in particolare i bambini. Gli abusi sessuali ai loro danni sono stati classificati perciò non come peccati ma come crimini, atti gravissimi e inemendabili.

Certo, ciascuna delle spiegazioni avanzate nel dibattito corrente sulle cause del dilagare dei casi di abusi sessuali sui minori contiene qualche aspetto di parziale verità. Non ce dubbio, ad esempio, che anche i preti siano stati influenzati dalle trasformazioni culturali in materia sessuale prodottesi a partire dagli anni Sessanta del Novecento» – come ha recentemente, fra l’altro, affermato il papa emerito, Benedetto XVI in un suo intervento sul tema – «e che le condotte omosessuali del clero, anche nei confronti dei giovani seminaristi, abbiano ricevuto sul piano pratico un minore ostracismo nonostante le norme disciplinari. La maggiore presenza dei temi della sessualità nella sfera pubblica ha, d’altra parte, reso probabilmente più gravoso per molti sacerdoti l’obbligo del celibato e dell’astinenza. E non ce dubbio, parimenti, che nella tendenza della Chiesa a privilegiare la propria immagine, mettendo a tacere le accuse e le notizie di casi di abusi sessuali sui minori, abbia avuto rilevanza la tendenza di ogni ceto sociale istituzionalmente costituito a proteggersi. Lo spirito di corpo e, nel caso della Chiesa cattolica, anche la tradizionale gestione di una sfera di comportamenti privati sottratti al controllo dello Stato, hanno pesato nelle pratiche di insabbiamento delle accuse di abusi sessuali compiuti da religiosi e nel sostenere la cultura del segreto. Ma tutte queste spiegazioni sono solo supplementari rispetto alla vera causa primaria che ha prodotto lo scandalo della pedofilia, vale a dire una cultura condivisa dai fedeli, dai preti pedofili e dalle gerarchie ecclesiastiche su cosa fossero questi atti, e che – trincerata nelle proprie certezze – è venuta perdendo contatto con i mutamenti di sensibilità della società civile.

La poca attenzione o non comprensione di questo punto produce l’immagine distorta di comportamenti decontestualizzati: la copertura esercitata dai vescovi sui sacerdoti che avevano confessato gli abusi viene infatti comunemente scambiata per una congiura, o per una squallida prassi clientelare e opportunistica, mentre andrebbe considerata come dipendente da una più generale concezione della ineluttabilità e insieme della redimibilità del peccato, una visione condivisa non solo dai vescovi ma anche dai sacerdoti che quegli atti hanno perpetrato e in buona misura anche dalle famiglie e dalle vittime che li hanno subiti» (pp. 235-236).

L’analisi storica relativa ai secoli passati e la presentazione dei fatti di cronaca più recenti, appaiono elaborate in modo sostanzialmente onesto: là dove le notizie non sono suffragate da dati certi, sono riportate, ma con beneficio d’inventario. Non si esclude che determinate accuse nei confronti della Chiesa o di singoli ecclesiastici, possano essere state, in tempi passati (come durante il periodo nazista) o anche recenti, mere manipolazioni volte a screditare l’Istituzione ecclesiastica e a favorire altri poteri, sebbene buona parte dei fatti riportati risultino documentati o comunque verosimili. Insomma siamo di fronte ad una ricerca storica che non appare ideologicamente connotata né contro, né a favore della Chiesa cattolica.

Da questo punto di vista il libro potrà costituire uno strumento utile a favorire nella Chiesa un percorso sempre più trasparente di purificazione della memoria intorno agli abusi sui minori. Potrà inoltre risultare un sussidio valido nell’ambito di corsi di formazione relativi alla Tutela dei minori e degli adulti vulnerabili che, si auspica, verranno offerti, sempre più frequentemente e diffusamente, nell’ambito delle Facoltà teologiche, e degli istituti ad esse affiliati, soprattutto in funzione della formazione dei futuri ministri ordinati e degli operatori pastorali. L’eventuale utilizzo del saggio, come possibile sussidio didattico è resa ancora più interessante dall’ampia e articolata bibliografia (pp. 274), che compensa, in parte, l’assenza di note a piè di pagina o di chiusura, come pure dal ricco indice dei nomi (pp. 277-284).

La proposta interpretativa a cui l’analisi storica vuole alla fine condurre, ovvero quella di un cambiamento non metabolizzato di paradigma, merita, d’altro canto una ponderata riflessione critica e non mancherà di arricchire il dibattito fra coloro che si interessano alla tutela dei minori.

Come si detto, la tesi chiave del libro vede nel paradigm shift, relativo alla comprensione della pedofilia come crimine piuttosto che come peccato, la ragione delle difficoltà della Chiesa a gestire con trasparenza ed efficacia il problema degli abusi sui minori da parte del clero. È difficile capire con certezza se il nocciolo della questione sia solo ed effettivamente questo, e se una eventuale ristrutturazione in questo senso del proprio orizzonte interpretativo da parte della Chiesa potrà risultare risolutiva. Se si considerano le cose in una prospettiva anche teologica e non soltanto storico sociologica, si potrebbe forse obiettare che invece che alla disgiuntiva sarebbe opportuno ricorrere alla congiunzione copulativa per accostare i due termini presenti nel titolo: Peccato e crimine, piuttosto che Peccato o crimine. La Chiesa non può infatti rinunciare alla categoria di peccato per definire il male morale e, d’altra parte, la categoria di crimen non era affatto assente dalla teologia morale tradizionale e dal diritto canonico, sebbene non esattamente con il significato che gli autori del libro attribuiscono al concetto di crimine nel libro, come rispondente alla sensibilità corrente in quanto delitto contro la persona e la libertà personale, piuttosto che come reato contro la moralità. Parlare dell’abuso sui minori (e anche sugli adulti vulnerabili), accostando al concetto di peccato quello di crimine (come delitto contro la persona), dovrebbe pertanto condurci a riflettere su come far sì che, nella Chiesa, l’irrinunciabile atteggiamento di misericordia nei confronti di chi ha peccato non oscuri, come di fatto è avvenuto in passato, l’ancor più irrinunciabile senso di misericordia verso le vittime dell’abuso stesso. Per affrontare il problema della pedofilia (e comunque dell’abuso sessuale sui minori e sugli adulti vulnerabili) non si dovrà inoltre sottovalutare, come di fatto è a lungo avvenuto, la prospettiva clinica, riconoscendo nella pedofilia (e in altre determinate forme di abusi sessuali) una patologia che comporta, fatalmente, forme di recidività: una coazione a ripetere che, come tale, non può risolversi con un’assoluzione, una penitenza, una calda raccomandazione a convertirsi e un sincero proposito nel penitente di non commettere più il peccato in questione. Dunque Peccato, crimine e patologia. La riflessione teologico morale e canonistica dovrà probabilmente lavorare per chiarire come si possano accostare e sovrapporre, evitando il paradosso, categorie non pienamente commensurabili come “peccato”, “crimine” e “patologia”, attraverso un confronto, vero e profondo, con le scienze umane e la casistica clinica. In conclusione, nella Chiesa deve affermarsi sempre più convintamente la persuasione che, per chi ha abusato di un minore, la migliore misericordia non è certo un ulteriore credito di fiducia, per un’improbabile innocenza sacramentalmente ristabilita, ma l’essere messo realmente in condizione di non nuocere più.

Detto questo, vorrei sottolineare che la tesi chiave del libro, relativa a un cambiamento di paradigma diversamente metabolizzato dalla società civile e dalla Chiesa, appare in ogni caso stimolante e merita di essere davvero ripresa, non solo nell’ambito della riflessione storico sociologica ma proprio anche in quello dell’approfondimento teologico e canonistico.

Un segnale interessante di come, nella Chiesa, il possibile cambiamento di paradigma messo a fuoco da Benigno e Lavenia sembri di fatto farsi strada, può essere comunque ravvisato nel fatto che, nella recentissima revisione del VI libro del Diritto canonico promossa da Papa Francesco (cf. Costituzione apostolica “Pascite Gregem Dei”, 23 maggio 2021) il reato di abuso di minori appaia adesso inquadrato non all’interno dei delitti contro gli obblighi speciali dei chierici, bensì in quelli «contro la vita, la dignità e la libertà» della persona.

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