Il naufragio di Paolo (At 27,13-14) e il “lutto di Giona” (Gio 4,5-9). Riflessioni su due metafore

725 483 Gianni Cioli
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di Gianni Cioli · Il capitolo 27 degli Atti degli Apostoli, ai versetti 13-44, narra in modo particolareggiato il viaggio per mare di Paolo alla volta di Roma, drammaticamente segnato dall’esperienza della tempesta e del naufragio.

Per comprendere il senso di questo episodio può essere utile considerare la tematica del naufragio all’interno dell’orizzonte biblico in genere, ma con una speciale attenzione agli scritti paolini.

L’Israele biblico non è un popolo di navigatori: lo attesta indirettamente, per esempio, l’incapacità di comprendere da parte dell’autore del libro dei Proverbi «il sentiero della nave in alto mare» (Pro 30,19). Nell’immaginario veterotestamentario, tuttavia, il tema del naufragio è presente e viene utilizzato, spesso accentuandone gli aspetti drammatici, per illustrare attraverso metafore l’operare salvifico di Dio o la sciagura che colpirà i suoi nemici. Nel Sal 48 (47),8 il terrore che la potenza di Dio scatena sui nemici di Sion è paragonato «al vento orientale che squarcia le navi di Tarsis». Nel Sal 107 (106),23-32 il tema dello scampato naufragio è presente quale singolare ex voto letterario mirabilmente incastonato in un inno di ringraziamento. In Ez 27,25-36 la sciagura che attende Tiro la potente è resa con l’immagine di una delle sue navi che affonda con tutta ciurma e il suo prezioso carico.

Il libro di Giona si apre con l’episodio di uno scampato naufragio, quello della nave con cui intendeva fuggire a Tarsis, per sottrarsi alla sua missione. La vicenda trova soluzione nel naufragio sui generis del profeta che, fattosi buttare in mare per distornare l’ira divina dalla ciurma, viene inghiottito da un grosso pesce per essere provvidenzialmente rigettato in prossimità della meta stabilita dal Signore, Ninive, la grande città (Gio 1-2).

I Vangeli danno al loro volta spazio al tema dello scampato naufragio, direttamente nell’episodio della tempesta sedata da Gesù che sgrida il vento e il mare (Mt 8,23-27; Mc 4,35-41; Lc 8,22-25) e indirettamente nell’episodio in cui Gesù cammina sulle acque mentre la barca dei discepoli è in difficoltà a causa delle onde e del vento forte (Mt 14,22-33; Mc 6,45-52; Gv 6,15-21).

In epoca neotestamentaria viaggiare per mare, come testimoniano gli Atti degli Apostoli, risulta il modo privilegiato per la diffusione del vangelo fra le genti. Non suscita quindi meraviglia che nell’epistolario paolino appaiano metafore legate all’esperienza marittima. Così nella lettera agli Efesini i credenti immaturi sono descritti come «sballottati dalle onde e portati qua e là da qualsiasi vento di dottrina» (Ef 4,14), mentre nella prima lettera a Timoteo si afferma che alcuni, che hanno ripudiato la buona coscienza, «hanno fatto naufragio nella fede» (1Tm 1,19).

Nella seconda lettera ai Corinti Paolo testimonia fieramente, insieme ad altre vicissitudini, la sua ripetuta esperienza di naufrago patita per la fedeltà al ministero di Cristo: «tre volte – dice l’apostolo – ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balìa delle onde» (2Cor 11,25).

Infine, con una dovizia di particolari sorprendente, il libro degli Atti al capitolo 27 ci descrive il naufragio di Paolo prigioniero condotto a Roma.

Se la testimonianza autobiografica della seconda ai Corinti pare voler mettere drammaticamente in evidenza la debolezza di Paolo che ha visto la morte in faccia ma, proprio così, ha potuto sperimentare la potenza di Cristo, il racconto lucano pare invece enfatizzare la forza d’animo e la capacità di controllo dimostrata dall’apostolo. Egli non appare in balia dagli eventi, ma li domina sotto l’ispirazione divina da cui si lascia guidare nelle parole e nella prassi. Se lo si fosse ascoltato si sarebbe potuto evitare la perdita della nave e ogni guaio, ma anche nel dramma del naufragio, sotto la sua guida ispirata e rasserenante, nessuno dei suoi compagni di viaggio perirà.

Particolarmente suggestiva è la lettura in chiave teologica proposta da Reinhard Kratz, il quale crede di poter ravvisare nelle vicende del naufragio di Paolo così come sono narrate negli Atti un richiamo al racconto di Giona, del quale Paolo rappresenterebbe l’antitesi. Dice infatti: «Paolo è, per così dire, il secondo Giona – mutato in positivo – che non fugge lontano dal suo Dio (cf. Gio 3,1), che non deve essere umiliato dai pagani, ma che sta dinanzi al suo Dio in maniera esemplare, professa la sua fede in lui e così facendo infonde coraggio ai compagni di viaggio, ne procura il salvataggio, la salvezza. In tal modo Paolo, anche proprio nell’emergenza e nella situazione limite estrema, nella burrasca e nel naufragio, è un missionario di Dio di grande efficacia. Come Gesù, nei racconti delle tempeste dei vangeli, garantisce sulla barca la sicurezza dei discepoli (e della sua comunità), così la vita dei compagni di viaggio è da Dio donata a Paolo, se questi credono alle sue parole, che vengono da Dio e si uniscono a lui nel pasto di ringraziamento» (R. Kratz, Rettungswunder: Motiv-, traditions- und formkritische Aufarbeitung einer biblischen Gattung, Frankfurt am Main 1979, 343. Cf. R. Pesh, Atti degli Apostoli, Assisi 1992, 907).

Se consideriamo il naufragio come possibile metafora esistenziale (cf. H. Blumenberg, Naufragio con spettatore. Paradigma di una metafora dell’esistenza, Bologna 1985), allora l’episodio di Atti 27, con l’esempio di Paolo (secondo Giona), può risultare un richiamo a tutti i cristiani a riappropriarsi della Speranza per testimoniarla (ognuno a partire dalla propria specifica vocazione e condizione) in questo tempo in cui tante speranze stanno facendo fatalmente naufragio, a livello nazionale, a livello globale e, non da ultimo, anche a livello ecclesiale.

Come cristiani siamo chiamati oggi a rifuggire la tentazione del “lutto di Giona” (Gio 4,5-9) che si deprime per la perdita del suo “ricino” (chiediamoci di cosa potrebbe essere metafora…) e perde di vista la sua missione, la “gioia del vangelo” che, nonostante (ma anche in virtù del) naufragio, egli ha il dono di poter proclamare (Gio 4,10-11).

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